Meningite: scienziati scoprono il processo di contaminazione

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La meningite è una malattia infiammatoria mortale che colpisce le membrane del cervello.
Le cause possono essere diverse, tra cui quelle batteriche. Proprio di queste si è occupato uno nuovo studio condotto da ricercatori americani dell’Università della California a San Diego.

In questa ricerca, gli scienziati hanno scoperto come una proteina presente sulla superficie di comuni batteri patogeni, permetta a questi ultimi di lasciare il flusso sanguigno e penetrare nel cervello provocando la mortale infezione.


Tra i maggiori responsabili c’è il pneumococco, un batterio che provoca circa il 50% dei casi di meningite umana. E «la meningite si sviluppa quando questi batteri riescono a penetrare la barriera emato-encefalica» ha dichiarato il professor Victor Nizet, della divisione di pediatria e farmacia presso la School of Medicine and Skaggs School of Pharmacy and Pharmaceutical Sciences (UCSD).

La “barriera” è solitamente un mezzo efficace per tenere lontani agenti patogeni che potrebbero attaccare il cervello e mantenere un ambiente biochimico ottimale per il funzionamento del cervello. Però, in questo caso, si è scoperto che questa proteina chiamata “Nana” riesce a far superare questa barriera ai batteri e a permettere il loro ingresso nel sistema nervoso centrale.
La proteina Nana è presente sulla superficie esterna di tutti i ceppi di pneumococco e gli scienziati, agendo geneticamente, sono riusciti a rimuovere sia parti specifiche che l’intera proteina dalla superficie dei batteri. In questo modo, i ricercatori, hanno scoperto che i batteri che mancavano di tutta o anche solo in parte di questa proteina avevano perso in gran parte la capacità di superare la barriera, al contrario dei batteri normali.
A conclusione dello studio, i ricercatori hanno espresso la volontà di proseguire in questo senso per poter riuscire a produrre dei vaccini specializzati e universali più efficaci per la prevenzione di questa mortale patologia che, ancora oggi, miete vittime in tutto il mondo.
Lo studio è stato pubblicato su “Experimental Medicine”.


La Stampa

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