Tumore alla prostata: spesso è sufficiente monitorarlo e conviverci

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cancro prostata


MILANO  (Corriere.it )– Operare o non operare? Radio o brachiterapia? Fare un trattamento o tenere la malattia «sotto controllo»? Le opzioni a disposizione degli uomini con un tumore della prostata sono diverse e le scelte vanno fatte, prima di tutto, in base al tipo di neoplasia e al suo stadio di evoluzione. Uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Cancer offre però ulteriori conferme a sostegno di una strategia osservazionale, ancora sperimentale in Italia: la sorveglianza attiva. Secondo gli esiti della ricerca, infatti, convivere con il cancro rinviando le cure non crea ansia né stress nei malati che scelgono di rinviare il trattamento radicale e che sono quindi sottoposti a controlli periodici.


I PAZIENTI: «SORVEGLIATI SPECIALI» – E’ una tattica riservata solo a determinate tipologie di malati, con un carcinoma di piccole dimensioni e poco aggressivo (in termini tecnici, appartenenti alla cosiddetta «classe di rischio bassa»: T1 e T2a, Gleason non superiore a 6, Psa inferiore a 10 e con non più di due biopsie positive). «La sorveglianza attiva consiste, in sostanza, nel posticipare le terapie al momento in cui il carcinoma diagnosticato cambia atteggiamento, se lo cambia – spiega Riccardo Valdagni, direttore del Programma Prostata della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Nel frattempo, il paziente viene gestito come un sorvegliato speciale e sottoposto a esami e visite periodiche per tenere la malattia sotto stretta osservazione». Esplorazione rettale e Psa ogni tre mesi, dunque. E, in aggiunta, una biopsia a scadenze prestabilite (a un anno dalla diagnosi, poi alla fine del secondo, del quarto, del settimo e del decimo anno).

SEIMILA OGNI ANNO I CANDIDATI ITALIANI – Il vantaggio? «Si evitano del tutto, o al limite si rinviano, i probabili effetti collaterali dei vari trattamenti anticancro: incontinenza e disfunzione erettile per l’intervento chirurgico, sanguinamento rettale e bruciori urinari per radio e brachiterapia», risponde Valdagni, che nel suo protocollo sperimentale di sorveglianza attiva (l’unico per ora in Italia) ha arruolato 145 pazienti dal 2005. «Stando alla nostra esperienza finora – prosegue – in sei casi su dieci il tumore non evolve, per cui i malati non devono far altro che seguire i controlli». Nel nostro Paese sono circa 45mila i nuovi casi di carcinoma alla prostata diagnosticati ogni anno. Di questi, grazie anche alla diagnosi precoce, circa il 40-50 per cento viene catalogato come classe di rischio bassa e, all’interno di questo gruppo, il 30-40 per cento è potenzialmente adatto alla sorveglianza attiva. A conti fatti, dunque, sarebbero circa seimila i candidati a evitare quello che gli specialisti definiscono «over-treatment», sovra-trattamento. Cure in eccesso per i diretti interessati, che si ritrovano poi a doverne affrontare le conseguenze indesiderate, e per il Servizio sanitario nazionale, che paga terapie inutili.

APPRENSIONE E STRESS A LIVELLI ACCETTABILI – Sorveglianza attiva significa, insomma, convivere con il tumore anche per anni. E, stando agli esiti dello studio olandese apparso su Cancer , il carico psicologico – in termini di ansia e tensione – che questa scelta comporta per i pazienti è tollerabile. I ricercatori dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam hanno inviato a 150 uomini, con tumore sottoposti a un programma di stretto monitoraggio clinico, un questionario mirato a misurare il loro livello di depressione e ansietà. Sono state 129 le risposte ricevute e i parametri contenuti in più dell’80 per cento dei test indicano che la condizione emotiva generale dei partecipanti è buona. Con tassi di ansia e stress paragonabili a quelli riportati in altri studi a cui partecipavano pazienti che avevo scelto però di sottoporsi alle terapie. «E’ difficile accettare l’idea di non intervenire contro il cancro per tenerlo soltanto sotto controllo – conclude Valdagni -, ma la nostra esperienza (dei 145 pazienti arruolati in sorveglianza attiva solo tre hanno poi deciso di abbandonare i controlli e farsi curare, ndr) ci insegna che i malati ben informati vivono più serenamente e gestiscono al meglio le loro angosce». Infatti, se s’instaura un buon rapporto fra medico e paziente, la fiducia ha un valore duraturo nel tempo, capace di dare tranquillità a malati e familiari. Secondo gli specialisti, poi, è importante che il curante non solo ascolti i dubbi, ma solleciti domande da parte dell’interessato, che deve ricevere tutte le notizie necessarie. Infine, un ruolo chiave lo giocano anche coniugi e parenti: è infatti importante che chi sceglie la sorveglianza attiva senta che la sua decisione è condivisa dai propri cari, che possono così contribuire ad alleviare la pressione psicologica.


Vera Martinella

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