Quando essere sieropositivi e’ solo l’inizio di un calvario

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Crisi e privacy violata, il calvario dei sieropositivi sul lavoro

(Adnkronos Salute) – “Temporaneamente non idoneo”. Bastano tre parole per uccidere un sogno. Andrea (nome di fantasia) ha 30 anni e una carriera da infermiere militare su cui ha investito una vita: ore passate sui libri e la ‘trincea’ in Sicilia, due anni a soccorrere i profughi che sbarcano sulle coste. hiv-red-ribbonIl suo mestiere? Una certezza, prima dell’Hiv. Voleva donare il sangue e si ritrova con un foglio bianco in mano. C’è scritto ‘sieropositivo’ e il suo incubo inizia da qui, da una diagnosi che fa paura. Per tenersi stretto il lavoro Andrea ha dovuto lottare, a colpi di segnalazioni al Garante della privacy e diffide, ha sfidato gli alti gradi dell’esercito italiano, sopportato umiliazioni e porte sbattute in faccia. Una piccola guerra durata quasi un anno, con conseguenze inaspettate. E’ grazie a lui che un regolamento del ministero della Difesa (Smm/Is150Ueu), in contrasto con la legge sulla privacy e con quella che tutela i diritti dei sieropositivi (135/1990), verrà cambiato. Ma non basta: le vie della discriminazione sono tante. Troppe. E come Andrea altri sieropositivi si sono scontrati con le dinamiche crudeli del mondo del lavoro. I casi più frequenti? Giovani precari che non si vedono rinnovare il contratto, dopo che la loro patologia è diventata di dominio pubblico. Ma anche donne e uomini sulla soglia dei 50 anni ‘mobbizzati’ e poi licenziati con un pretesto, dipendenti emarginati o ricollocati, persone che solo tenendo nascosto l’Hiv possono lavorare. L’era della flessibilità e la crisi hanno peggiorato le cose. “I più colpiti dalle ristrutturazioni aziendali sono sempre i più deboli.


E i sieropositivi sono fra questi”, spiega all’ADNKRONOS SALUTE Salvatore Marra, responsabile dell’Ufficio Nuovi diritti attivo nella Cgil di Roma e Lazio. “Solo qui ogni mese arrivano una quindicina di segnalazioni, in un anno si sfiora quota 200”. Ma molti di meno sono i sieropositivi che vanno fino in tribunale per difendere i propri diritti. I più abbandonano prima, per paura di esporsi troppo. “Ancora oggi la sieropositività è una ‘macchia’ da nascondere. E i contenziosi che finiscono in aula sono solo la punta dell’iceberg”, osserva Matteo Schwarz, avvocato romano che offre consulenza legale alle persone con Hiv, attraverso la onlus Nps (Network persone sieropositive) Italia. Il primo problema è difendersi dagli attacchi alla privacy, non essere costretti a svelare a tutti i costi la propria patologia. In molte aziende non si rispetta nemmeno l’obbligo di separare i dati identificativi della persona (nome, cognome, data di nascita) da quelli sensibili (sullo stato di salute per esempio). “E a poco servono i codici per ‘criptare’ le patologie, basta andare su Internet per decifrarli”, sottolinea Schwarz. “Se entri nella lista delle categorie protette, tutti – dai titolari delle aziende ai responsabili delle agenzie interinali – ti chiedono con insistenza da quale malattia dipende la tua invalidità. Se non rispondi ti guardano con sospetto. Eppure la legge che tutela i diritti dei sieropositivi e punta a prevenire la discriminazione anche sul posto di lavoro risale al 1990”. A raccontarlo è Lara (nome di fantasia), donna minuta sui 40 anni, sieropositiva da 20, convinta che sia meglio “uscire allo scoperto, non aver paura”. Ma poi anche lei chiede di restare anonima.


Diversi mestieri alle spalle, oggi lavora con l’Associazione solidarietà Aids (Asa) e aiuta i sieropositivi a formarsi e a trovare un impiego, è sposata con un uomo sieronegativo e sogna un figlio. “Oggi ci si nasconde forse anche più di ieri. Qualcuno arriva persino a dire che ha l’epatite C, che è più contagiosa dell’Hiv”. La legge 135/90, fra le altre cose, prevede la non obbligatorietà dei test dell’Hiv e l’anonimato per chi vi si sottopone. Prescrizioni che sono rimaste lettera morta nel caso di Andrea. “L’Hiv spiazza: anche gli stessi camici bianchi – racconta – spesso non sono preparati per affrontare la situazione, ignorano le leggi e le informazioni scientifiche sul contagio”. Andrea è rimasto a casa per 7 mesi, con lo stipendio decurtato. Mesi in cui una commissione medico-legale, seguendo un regolamento interno, ha continuato ad abbinare nei verbali la diagnosi al suo nome e cognome. “Le carte con i miei dati sensibili intanto passavano di mano in mano, arrivando persino sulle scrivanie del mio comando e all’ufficio del personale militare a Roma. C’è stato chi mi ha chiesto dei miei orientamenti sessuali senza pensare che l’Hiv potrei averlo contratto in servizio, sono stato definito un ‘pericolo per la collettività’, perché ‘anche per mezzo di asciugamani e bagni pubblici’ potevo trasmettere il virus”. Parole pesanti come macigni. Poi finalmente il Garante comincia a muoversi. E la situazione si sblocca: Andrea ritorna alla sua attività di infermiere e, con un provvedimento emanato in questi giorni, il ministero della Difesa viene inibito a trattare ulteriormente i suoi dati sensibili e dovrà adeguare i propri regolamenti e i modelli di verbale alla legge. “La prossima battaglia sarà sui concorsi”, avverte Andrea. “Il ministero della Difesa, per reazione, ha infatti introdotto il requisito del test dell’Hiv”, ma i ‘controlli a tappeto’ sono vietati dalla legge. E su questo punto Nps ha già chiesto un chiarimento al ministro Ignazio La Russa. “Lo stigma sociale nei confronti dei sieropositivi resiste ancora oggi e interessa molte persone”, continua Schwarz. Ogni anno si infettano circa 4 mila italiani, secondo le stime dell’Istituto superiore di sanità. Ed è difficile uscire allo scoperto. C’è chi per difendere il lavoro ha deciso di essere cauto. Come Sara (nome di fantasia), 47 anni, che in una città del Nord Italia si divide fra il suo lavoro da impiegata e quello di insegnante di danza. Nessuno dei suoi allievi sa che è sieropositiva. “Troppa paura”, spiega. “Persino io ci ho messo 10 anni, passati in parte sul lettino di uno psicologo, per convincermi che potevo insegnare danza”. Sara convive con l’Hiv da 22 anni. La diagnosi è arrivata come un fulmine a ciel sereno quando ne aveva 25 ed era una ragazza “da primo bacio a 18 anni”. Tutta sport, lavoro e oratorio. Era il 1986 e di Aids non si sentiva parlare se non come la malattia degli omosessuali americani. Lei, contagiata dal suo fidanzato di allora, ha continuato a lavorare e, senza dirlo ai genitori, ha affrontato da sola i medici che le dicevano: “Morirai”. Poi la svolta delle terapie antiretrovirali. “Ho cominciato a star meglio, a fare progetti”. La danza l’ha aiutata a recuperare energia e vitalità, a ritrovare il contatto con le persone. “La mia è una storia positiva – conclude – Ma la discriminazione sul lavoro continua a esistere, e colpisce tutti i malati, non solo i sieropositivi che nella maggior parte dei casi stanno bene e sono in grado di mantenere ritmi di lavoro normali, se si escludono qualche periodo di stanchezza, le influenze sempre dietro l’angolo e gli appuntamenti con i controlli ogni 1-2 mesi”.


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