Considerati eccessivi e numerosi gli esami cardiologici: da considerare effetti collaterali
ORLANDO – Si muore sempre meno di infarto, ma si rischiano sempre più gli «effetti collaterali» degli esami cardiologici. Un paziente, che viene oggi ricoverato in ospedale per un attacco di cuore, riceve una quantità di radiazioni, da coronarografie, tomografie o scintigrafie cardiache, pari a 725 Rx del torace.
Una dose di esposizione che è circa un terzo di quella massima consentita, in un anno, a chi lavora in un impianto nucleare. E le conseguenze a lungo termine sono tutte da valutare, ma si sa che le radiazioni ionizzanti possono aumentare le probabilità di sviluppare un tumore. A porre l’accento sui rischi da test è uno studio appena presentato al meeting annuale dell’American Heart Association in corso a Orlando. Spesso i medici prestano attenzione alla dose di radiazioni di un singolo esame, ma non fanno il conto della quantità cumulativa: gli esperti americani della Duke University di Durham lo hanno fatto, analizzando i dati di oltre 60 mila pazienti, e sono arrivati alla conclusione che in media a ogni paziente vengono prescritti 7 esami, durante il ricovero in ospedale per un attacco acuto di cuore, e che la dose di radiazioni accumulata si aggira attorno ai 14,5 millisieverts (il sievert misura il danno provocato da una radiazione su un organismo). «Fra 1980 e il 2006 il numero di test medici che prevedono l’impiego di radiazioni ionizzanti – ha commentato Prashant Kaul, che ha coordinato la ricerca – è aumentato del 700 per cento e un terzo di questi viene praticato a pazienti che soffrono di problemi cardiovascolari».
NUOVE TERAPIE – Se è vero che i pazienti, con un attacco di cuore, hanno di che preoccuparsi fino a quanto i medici non cercheranno di razionalizzare l’uso di questi test, è altrettanto vero che un’altra notizia, appena discussa a Orlando, può significare per molti di loro una possibilità di sopravvivenza in più. «Da vent’anni, dai tempi dell’introduzione dell’rtPA, il farmaco capace di sciogliere i trombi, che ha radicalmente cambiato la prognosi dell’infarto – commenta Diego Ardissino direttore della Cardiologia all’Università di Parma – non ci trovavamo di fronte a risultati così interessanti». I risultati arrivano da uno studio chiamato Plato che ha dimostrato come la somministrazione di un nuovo inibitore delle piastrine (le componenti del sangue che contribuiscono alla formazione di trombi) chiamato ticagrelor riesce a salvare nove persone in più, su mille infartuati, rispetto a un altro farmaco utilizzato oggi, il clopidogrel. E’ una specie di “turbo-aspirina” che agisce più rapidamente degli altri e si sa che nell’infarto acuto, soprattutto nelle forme più gravi, la velocità dell’intervento è più utile del farmaco in sé. «Questa molecola – commenta Ardissino – ha un’azione molto veloce e per di più reversibile. Il che significa che, se devo operare subito un paziente, possono farlo dopo 24 ore dalla sospensione del farmaco senza rischiare eccessivi sanguinamenti. Con gli altri farmaci è necessario aspettare alcuni giorni».