Amore e dolore fanno rima e condividono la stessa area cerebrale

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Non prendete in giro chi soffre per amore; se vi dice che sta male «fisicamente», credetegli. Perché amore, nel cervello, fa rima con dolore: le aree cerebrali che si attivano se non veniamo corrisposti sono le stesse accese quando proviamo un dolore fisico. Lo dimostra una ricerca, pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences, condotta dalla psicologa californiana Naomi Eisenberger su 122 volontari.

LO STUDIO – Le pene d’amore in realtà sono state ricreate in laboratorio, con un gioco in cui il partecipante veniva di volta in volta escluso da altri: una simulazione di rifiuto sociale. Quando la persona era respinta, la risonanza magnetica funzionale mostrava l’accensione della corteccia cingolata anteriore e dell’insula anteriore sinistra, le aree dove risiede la componente affettiva del dolore fisico, che si attivano quando ci facciamo male o abbiamo un fastidio costante. «I pazienti con una lesione in queste aree sentono fisicamente il dolore, ma lo vivono in modo distaccato» chiarisce la Eisenberger. Commenta Donatella Marazziti, del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pisa, che da anni studia la biologia dell’amore: «Non mi meraviglia che la base biologica per il dolore fisico e psicologico sia la stessa. Non usiamo infiniti sistemi per le nostre funzioni; per situazioni simili adattiamo» e attiviamo un unico circuito. Del resto il valore profondo del dolore, reale o psicologico, è uno: ci segnala che dobbiamo evitare qualcosa che può nuocerci». Che sia acqua bollente o una relazione sbagliata, insomma, poco importa al cervello: i segnali che invia sono identici. Tanto che si attivano gli stessi recettori cerebrali, quelli per gli oppioidi, in pratica gli interruttori su cui agiscono morfina e simili, che non a caso tolgono il dolore fisico, ma anche lo stress emotivo che lo accompagna.

PREDISPOSIZIONE GENETICA – I dati raccolti dalla Eisenberger vanno oltre: la psicologa ha dimostrato che c’è chi è geneticamente predisposto a soffrire di più. Studiando i suoi volontari si è accorta che una variante del gene per un recettore degli oppioidi si associava invariabilmente a una tendenza a patire di più il rifiuto sociale: le aree cerebrali attivate si allargavano, la persona in questione si sentiva proprio a terra. Plausibile, secondo Marazziti. A questo punto, la tentazione di curare le pene d’amore con gli antidolorifici, soprattutto se siamo «anime geneticamente sensibili», è grande. «Sarebbe mostruoso: star male per amore serve per imparare a scegliere la persona giusta — dice la psichiatra —. Solo se la sofferenza diventa depressione è doveroso intervenire. L’amore non deve essere manipolato». I modi per farlo, in teoria, ci sarebbero: oltre agli oppioidi, infatti, l’amore modifica i livelli di serotonina, di peptidi come ossitocina e vasopressina, delle neurotrofine che «nutrono» il nostro cervello. Tutti sistemi per cui abbiamo già, o sono allo studio, vari farmaci. Ma le medicine che influenzano l’amore non sono esenti da rischi. «Basta pensare — osserva Marazziti — a che cosa succede quando curiamo i depressi, con farmaci che agiscono anche sui sistemi coinvolti nella biologia dell’amore: alcuni, guariti, tornano a innamorarsi; altri non recuperano le capacità affettive». Come dire, meno ci si mettono le mani meglio è, perché è difficile prevedere dove si va a parare. «Quando amiamo, si attivano tutte le aree cerebrali “sociali”, cioè l’80% del cervello. Intervenire dall’esterno su un’emozione così complessa rischia di provocare effetti imprevedibili» conclude la psichiatra.

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