Identificato nei canidi il gene dei disturbi ossessivi

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Gli scienziati della University of Massachusetts Medical School, della Cummings School of Veterinary Medicine della Tufts University e del Broad Institute del Massachusetts Institute of Technology (Usa) hanno identificato un gene nel cromosoma 7 dei cani associato al rischio di disturbi compulsivo-ossessivi nei nostri amici a quattro zampe, soprattutto Dobermann e Bull Terrier.

Come ricorda la rivista ‘Molecular Psychiatry’, questo disturbo affligge sia gli uomini (circa il 2% della popolazione mondiale), sia i quadrupedi, manifestandosi con comportamenti ripetitivi fino all’ossessione: gesti, tic e azioni che si eseguono senza controllo, più e più volte al giorno. Ma questa scoperta potrebbe portare a nuove soluzioni sia per la forma canina che per quella umana, dato che secondo gli esperti potrebbero esserci degli aspetti in comune fra esse.

Il team di scienziati ha raccolto per oltre un decennio campioni di sangue di cani di razza Dobermann, sani o affetti da questa grave sindrome. Analizzandoli e individuando nel cromosoma 7 la possibile anomalia, cioè il gene Cdh2, gli esperti hanno poi notato che questa sequenza di Dna ‘sospetta’ era molto più presente nei quattrozampe malati che in quelli sani, fino al 60% nei primi contro il 22% degli altri.

E’ la prima volta che la ricerca riesce a individuare una regione genetica associata al disturbo ossessivo-compulsivo dei cani. E il Cdh2 appare particolarmente interessante poiché legato allo sviluppo del sistema nervoso centrale, proprio nel momento in cui vengono create reti nervose essenziali nel cervello. Tutto ciò avviene anche nell’uomo ed ecco perché gli scienziati sono convinti che questo gene potrebbe essere coinvolto nel disturbo compulsivo-ossessivo umano, anche nelle forme che si manifestano in persone affette da autismo.

“Il modo in cui questo problema si manifesta e gli elementi simili nella risposta ai trattamento farmacologici in uomini e cani – sottolinea Edward Ginns, uno dei ricercatori – ci suggerisce che potrebbero essere coinvolti meccanismi simili. Speriamo che questo studio ci traghetti verso una migliore comprensione della biologia di questa malattia e faciliti lo sviluppo di test genetici in grado di portare a terapie precoci o anche alla prevenzione di questi disturbi”.

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