Il senso di sazieta’ – e non solo – spesso dipende dalla flora batterica
Batteri nemici, che provocano terribili malattie o batteri amici, come quelli che popolano il nostro intestino, garantendone il buon funzionamento? Né l’uno né l’altro; si tratta di concetti vecchi, ci dicono le ultime ricerche. I germi, batteri, microrganismi o microbi che dir si voglia, non sono il «diverso», o l’«ospite»; risiedono dentro di noi, e forse un po’ ci comandano. Svolgendo funzioni in buona parte sconosciute. I batteri sembrano addirittura capaci di influenzare la velocità del nostro metabolismo, soprattutto quelli che vivono nel tratto enterico, numerosi (il loro peso complessivo è stato calcolato in circa un chilo) e variegati, visto che arrivano e superano le 1.000 specie, come ha scoperto una ricerca cinese pubblicata sulla rivista Nature. Uno dei legami più interessanti di questo «popolo» di microbi è quello con l’obesità: dalla minore o maggiore abbondanza dei due ceppi di batteri prevalenti nell’intestino, i Bacteroides e i Firmicutes, sembra derivare la tendenza, o meno, all’obesità. Non solo: si è riusciti a dimostrare nel topo (soltanto nel topo, però) che è sufficiente trasferire la flora batterica intestinale da animali obesi ad altri con l’intestino «vergine» di germi, per indurre in questi ultimi un aumento della massa grassa. La spiegazione più probabile è che la flora batterica presente nell’intestino potenzi la capacità dell’organismo di estrarre energia, quindi calorie, dai cibi ingeriti. Il che si traduce, inevitabilmente, in un aumento di peso.
LA CONFERMA – A confermare questa nuova visione delle cose e in qualche modo a complicarla, arriva adesso una ricerca pubblicata sulla rivista Science dal dipartimento di patologia della Emoryuniversity ad Atlanta che dimostra come una cura a base di antibiotici ad ampio spettro riesca a far perdere di peso topi in cui l’obesità è stata indotta artificialmente. Gli animali sono stati privati del gene che comanda la produzione sulla superficie delle cellule intestinali del recettore Toll-like 5, proteina che controlla le reazioni immunitarie del tratto digestivo, in cui si liberano citochine, sostanze che facilitano l’infiammazione. L’idea suggerita dallo studio è che l’obesità delle persone con certi batteri nell’intestino sia frutto non tanto di una maggiore estrazione di calorie dai cibi, ma della capacità di questi germi di innestare processi metabolici, come quello appena accennato che porta all’infiammazione, e da lì ad una cascata di eventi: resistenza all’insulina, aumento dell’appetito, alla fine sovrappeso. «Ricerche come queste ci costringono a guardare i batteri sotto una nuova luce — commenta Ercole Concia, professore di malattie infettive all’università di Verona, che con questi «cari ospiti» combatte da una vita — . I microbi che vivono dentro di noi condizionano le funzioni dell’organismo agendo su recettori implicati nei processi infiammatori, ma anche nella risposta immunitaria. Se ospitiamo germi diversi, possiamo essere diversi: noi siamo anche la “città” in cui vive un chilo e mezzo di batteri. Un panorama tutto da esplorare. Quest’ultima scoperta sull’obesità è solo una traccia». Non dimentichiamo che altri studi hanno messo in evidenza una certa prevalenza di ceppi batterici nel cancro del colon e nella malattia di Crohn. Le funzioni, anche sofisticate, dei microrganismi all’interno del corpo umano sono un bel terreno di caccia per i ricercatori, ma già da qualche anno ci si è resi conti che batteri e miceti comunicano fra di loro in un modo complesso e raffinato, neanche ipotizzato fino a dieci anni fa. È quello che gli esperti chiamano il quorum sensing, ovvero il dialogo attraverso segnali (per lo più chimici, micromolecole) che i germi hanno elaborato in millenni di presenza sulla Terra per svolgere le loro funzioni di popolazione, che come abbiamo visto non sono soltanto la sopravvivenza o la distruzione.
BATTERI INTELLIGENTI – «Impressionante, ad esempio — prosegue Concia — quello che si è scoperto sui batteri che inquinano le protesi d’anca. Quando la protesi si infetta, il paziente avverte dolore; dal sintomo si arriva poi ad accertare la presenza di un’infezione. In questi casi ormai sappiamo che le terapie antibiotiche sono inefficaci: bisogna fare una revisione, intervenire. Perché? I batteri sulla protesi si accasano bene formando macrocolonie, ma per garantirsi un habitat certo liberano un polisaccaride, il glicocalice, che crea loro intorno un guscio impenetrabile. Una volta assicurata la messa in sicurezza, i batteri entrano in uno stato dormiente, in cui sono inattaccabili. E nessuno li sconfigge più». Batteri intelligenti, dunque ma quanto? «Tanto, molto più di quanto si è creduto finora — risponde Elisabetta Blasi, professore di microbiologia clinica all’università di Modena e Reggio Emilia — . Le faccio un esempio vicino alla vita di tutti i giorni: i germi che popolano la placca batterica dentaria sono regolati da vere proprie gerarchie, sia temporali, si di esigenze nutrizionali (bisogno di ossigeno o di un certo pH). Per rispettarle si mandano segnali, attraverso microsostanze chimiche, ma anche attraverso certi cambiamenti di posizione. Altri messaggi sono di avvertimento, come quelli di alcuni germi dotati di luminescenza che si «accendono» quando la loro popolazione triplica; è il segnale per frenare una crescita troppo tumultuosa. Altri messaggi superano la barriera di specie: i batteri attraverso il quorum sensing comunicano con i miceti, con le piante, con gli organismi animali, il nostro compreso. Hanno raccolto bene queste evidenze in un articolo pubblicato nell’agosto dello scorso anno, Steve Atkinson e Paul Williams, microbiologi dell’università di Nottingham, in Inghilterra». Ma il quorum sensing potrebbe essere governato da noi umani in modo da condizionare, ingannare i batteri, diventare un’arma terapeutica? Ipotesi affascinante su cui sta lavorando Thomas Bjarnsholt, microbiologo dell’università di Copenhagen, in cerca di micromolecole in grado di interferire con i segnali chimici che le colonie della micidiale Pseudomonas aeruginosa utilizzano per accasarsi nei polmoni dei malati di fibrosi cistica. Il ricercatore pensa di aver trovato una sostanza che inibisce la comunicazione fra i microbi. Un vero antiquorum. Dove? Guarda un po’, nell’aglio.
Corriere.it
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