Vitamina D: il legame con le patologie autoimmuni e il cancro

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Alcuni ricercatori provenienti da Gran Bretagna e Canada hanno identificato 229 geni umani su cui si ripercuotono le variazioni del livello di vitamina D presente nell’organismo. Molti dei geni identificati sono coinvolti in malattie autoimmuni (ad es. sclerosi multipla, lupus eritematoso sistemico e artrite reumatoide) e neoplasie. I risultati, pubblicati sulla rivista Genome Research, hanno importanti implicazioni per la salute pubblica, in particolare per quanto concerne le cure prenatali.

I progressi compiuti nelle tecniche di sequenziamento del DNA (acido desossiribonucleico) hanno consentito ai ricercatori di studiare in modo approfondito e con inaudita precisione le interazioni tra proteine e DNA. Questi potenti strumenti permettono di meglio comprendere la predisposizione genetica a diverse patologie.

Gli studi condotti di recente hanno evidenziato che l’apporto di vitamina D potrebbe rivestire un ruolo chiave nella predisposizione a sclerosi multipla, diabete di tipo 1 e artrite reumatoide. Inoltre, si è ormai da tempo al corrente del fatto che una carenza di vitamina D, rilevata in circa 1 miliardo di persone, può portare a contrazioni pelviche da rachitismo e morte perinatale. Solitamente, è possibile sopperire alla carenza esponendosi alla luce del sole o assumendo olio di pesce quotidianamente.

Il recettore della vitamina D (VDR) si lega ad alcune porzioni del genoma umana, per mezzo delle quali influisce sulla loro attività, sulla loro espressione e su quella dei singoli geni. In questo ultimo studio, i ricercatori hanno combinato diverse tecniche (immunoprecipitazione della cromatina – ChIP e sequenziamento parallelo e massivo) per creare una mappa genetica dei siti in cui il recettore della vitamina D interagisce con il DNA, influendo sulla formazione delle proteine.

In particolare, l’équipe ha isolato alcuni frammenti di DNA legati al recettore prima e dopo aver trattato le cellule con calcitriolo, la forma attiva della vitamina D. Quindi hanno sequenziato i frammenti di DNA per poi rimapparli nuovamente nel genoma.

Questo procedimento ha permesso ai ricercatori di identificare 2.276 siti che interagivano con il recettore della vitamina D e di individuare 229 geni la cui espressione è vincolata alla vitamina D. Lo studio ha evidenziato la vicinanza di questi siti con una serie di geni in passato associati alla predisposizione alla sclerosi multipla, al lupus eritematoso sistemico, all’artrite reumatoide, alla leucemia linfatica cronica e al cancro del colon-retto. Due di questi geni sono l’IRF8 (regolatore dell’interferone fattore 8, associato alla sclerosi multipla) e il PTPN2 (proteina tirosina fosfatase non-ricettore tipo 2, associata al Morbo di Crohn e al diabete di tipo 1).

Secondo il dott. Sreeram Ramagopalan del Wellcome Trust Centre for Human Genetics (Gran Bretagna) i risultati confermerebbe l’ipotesi secondo la quale la vitamina D interagisce con i geni legati alla patogenesi di queste patologie ed evidenzia il grave rischio associato alla carenza di vitamina D, specialmente per le persone geneticamente predisposte a sviluppare patologie in seguito a questa insufficienza.

“Siamo di fronte a elementi che provano il ruolo della vitamina D nell’insorgenza delle malattie. Assumere integratori di vitamina D durante la gravidanza e la prima infanzia potrebbe avere un effetto benefico sulla futura salute del bambino. Alcuni paesi, ad esempio la Francia, hanno introdotto questa pratica tra le misure sanitarie di routine”, ha spiegato il dott. Ramagopalan. ‘

“Il nostro studio dimostra in modo palese l’ampia influenza che ha la vitamina D sulla nostra salute”, ha aggiunto il dott. Andreas Heger della MRC Functional Genomics Unit dell’Università di Oxford.

I risultati dello studio gettano luce anche sulle variazioni del colore di cute e capelli e sull’ottimizzazione della produzione di vitamina D avvenute con l’emigrazione dall’Africa. “Lo status della vitamina D è stato probabilmente uno dei fattori di selezione a livello genetico più forte”, ha affermato il Professor George Ebers del Wellcome Trust Centre for Human Genetics. “Il nostro studio supporta questa interpretazione e non è da escludere che non abbiamo avuto abbastanza tempo per adeguarci come necessario alle condizioni nordiche”.

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