Talassemia: il deferiprone si rivela efficace contro accumuli di ferro nel cuore
I risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista Haematologia, una delle maggiori del settore, e sono di quelli che capaci di far fare più di un sorriso ai malati di talassemia che ogni giorno si sottopongono alla necessaria terapia per tenere sotto controllo gli accumuli di ferro nel cuore, effetto collaterale delle necessarie trasfusioni. Uno studio tutto italiano ha infatti dimostrato la maggiore efficacia del deferiprone nel prevenire e rimuovere l’accumulo di ferro cardiaco, tra i tre farmaci chelanti del ferro ad oggi disponibili.
Visto che questo farmaco è disponibile anche in forma orale il vantaggio in termini di qualità della vita non è trascurabile considerato che la terapia per via sottocutanea con desferrioxamina viene somministrata indossando per più ore al giorno un ago con una sorta di ‘pompa’ che trasferisce il farmaco.
“Le persone affette da talassemia major – spiega infatti il prof. Aurelio Maggio, direttore di Ematologia II presso l’azienda ospedaliera Riuniti Villa Sofia – V. Cervello di Palermo e tra i firmatari dello studio – cominciano le trasfusioni intorno ai 2 – 3 anni. Le trasfusioni vengono effettuate ogni 15 – 20 giorni e dopo le prime 20, dunque intorno ai 3 anni, si rende necessaria la terapia chelante”.
Lo studio comparativo tra i tre farmaci chelanti in monoterapia è stato possibile grazie all’utilizzo della nuova tecnica diagnostica di RM denominata “multislice T2”, nell’ambito del Progetto Miot – Myocardial Iron Overload in Thalassemia presso l’U.O.C. di Risonanza Magnetica, diretta dal Dott. Massimo Lombardi, della Fondazione Gabriele Monasterio CNR/Regione Toscana per la Ricerca Medica e di Sanità Pubblica, con sede a Pisa.
Lo studio ha paragonato l’efficacia di tre terapie attualmente in uso: il deferasirox, la desferrioxamina e il deferiprone. I ricercatori hanno selezionato 155 pazienti che avessero cominciato la terapia chelante da almeno 12 mesi. Di questi 24 erano stati trattati con deferasirox, 42 con deferiprone e 89 con desferrioxamina. Su questi è stata effettuata la misurazione degli accumuli di ferro cardiaco grazie alla nuova tecnica “multislice T2”, l’unica che permette di quantificare l’accumulo su tutto il ventricolo sinistro. Dai risultati è emersa la significativa maggior efficacia del deferiprone nel prevenire e rimuovere l’accumulo di ferro cardiaco con un sinergico effetto sulla funzione cardiaca. Nello studio il deferiprone è stato utilizzato nella formulazione in compresse, ma è ora disponibile anche come sciroppo.
I risultati sono stati resi noti su un articolo pubblicato su Haematologia il 30 settembre scorso, firmato dalla dottoressa Alessia Pepe, dirigente medico dell’U.O.C. di Risonanza Magnetica della Fondazione Monasterio di Pisa in collaborazione con alcuni dei maggiori centri italiana per la cura della talassemia..
“C’erano in precedenza degli studi che paragonavano in modo sistematico l’efficacia della desferrioxamina e del deferiprone, ma nessuno che prendesse in considerazione anche il deferasirox – spiega la dottoressa Pepe – Si tratta di uno studio retrospettivo ed attendiamo di vedere se i dati prospettici, al momento in analisi, confermeranno questa osservazione. Peraltro la tecnologia multislice T2* consente una precisa quantificazione degli accumuli di ferro, non solo in una porzione del ventricolo, ma su tutto il ventricolo sinistro”.
Una chiarezza diagnostica che apre la strada a trattamenti sempre più personalizzati in base alle condizioni del paziente e che con ogni probabilità permetterà di allungare ulteriormente la sopravvivenza dei talassemici.
“Chiaramente – spiega il Prof Maggio – la scelta della terapia dipende sempre dalle specifiche condizioni del paziente, che con questo metodo diagnostico si potranno stabilire con estrema precisione. In ogni caso il deferiprone ha dato ottimi risultati per la capacità di prevenire o rimuovere l’accumulo di ferro e nel migliorare la capacità del cuore di contrarsi. Dunque, pur rimanendo la necessità di valutare sui singoli casi, in linea di massima per i pazienti con più di 6 anni potrebbe essere opportuna l’adozione di questa terapia”.