Fratture Vertebrali: meglio la chirurgia, ma mininvasiva
Le nuove evidenze cliniche pubblicate in due recenti studi
Milano, 24 giugno 2011 – In Italia ogni anno si verificano oltre 100.000 fratture vertebrali causate principalmente da osteoporosi. Le più colpite sono le donne, in età post-menopausale. Il progressivo invecchiamento della popolazione unito alle aumentate esigenze funzionali fanno sì che le problematiche mediche legate alle patologie vertebrali abbiano subito un vertiginoso incremento in termini numerici e non solo.
“Le fratture vertebrali hanno un rilevante impatto sulla salute e sulla qualità della vita di un individuo – ha dichiarato la Dottoressa Maria Luisa Bianchi, del Centro Malattie Metaboliche Ossee dell’Istituto Auxologico Italiano IRCCS di Milano nel corso di un incontro stampa organizzato oggi a Milano da Medtronic Italia dal titolo: “Chirurgia vertebrale percutanea nelle fratture da compressione: focus su vertebroplastica e cifoplastica con palloncino” – Determinano, infatti, dolore (spesso cronico), perdita di altezza, incurvamento e deformità del dorso, ridotta mobilità, minor capacità polmonare, e significativo peggioramento della qualità di vita, legato alle maggiori difficoltà nelle attività quotidiane e a disturbi psicologici come depressione, paura, perdita di autostima”.
Questo costituisce un serio problema se si pensa che un donna di 50 anni ha un rischio del 16% di andare incontro a una frattura vertebrale nel resto della propria vita (per l’uomo il rischio si abbassa al 5%) e che una donna di 65 anni se ha già subito una frattura vertebrale, ha il 25% di probabilità di avere una nuova frattura nei successivi 5 anni. Pericolo che può essere dimezzato con un’appropriata terapia.
“Tuttavia – continua la dottoressa Bianchi – solo il 25-30% delle fratture vertebrali sono riconosciute clinicamente e quindi, adeguatamente trattate. Trattamenti che sarebbero in grado di ridurre significativamente l’eventualità di nuove fratture (anche più del 50%), di migliorare la percezione del dolore e, come confermato da una recente meta-analisi, di ridurre la mortalità dell’11%”.
Bisogna essere, infatti, consapevoli che le fratture vertebrali possono avere gravi conseguenze. Uno studio canadese e un recentissimo studio giapponese hanno messo in evidenza che uomini e donne sopra i 70 anni che hanno avuto fratture alla colonna hanno una sopravvivenza a 10 anni ridotta del 20% rispetto ai coetanei che non ne hanno subite.
“Nonostante le numerose ricerche condotte negli ultimi 15 anni sul ruolo dei fattori di rischio, sulle metodiche diagnostiche e sull’efficacia antifratturativa delle nuove terapie permettano oggi di formulare diagnosi più tempestive, individuando i soggetti a rischio più elevato nei confronti dei quali iniziare, ad esempio, un trattamento farmacologico anche prima della comparsa delle fratture da fragilità, nella pratica un corretto inquadramento diagnostico e terapeutico non viene messo in atto neppure dopo il verificarsi di fratture tipiche da osteoporosi – ha affermato il Dottor Sergio Ortolani, Direttore dell’Unità Malattie del Metabolismo Osseo dell’Istituto Auxologico Italiano IRCCS di Milano – Infatti, solo una modesta minoranza dei casi ricoverati per fratture da fragilità riceve alla dimissione una prescrizione diagnostica o terapeutica per l’osteoporosi, perdendo così la possibilità di intervenire nel ridurre nuove fratture in una categoria di pazienti a rischio particolarmente elevato”.
“Quando la frattura vertebrale non viene diagnosticata correttamente o in tempi rapidi, il più comune approccio terapeutico adottato è quello ‘conservativo’ che consiste nella somministrazione di analgesici, busto ortopedico, fisioterapia, riposo a letto – aggiunge il Dottor Giovanni Carlo Anselmetti, Responsabile della Radiologia Interventistica presso l’IRCC Candiolo di Torino – ma, considerando le gravi conseguenze indotte dalle fratture vertebrali, da oltre un ventennio sono state introdotte procedure chirurgiche minimamente invasive, che oggi si stanno rivelando sempre più sicure ed efficaci, che permettono di ampliare le possibilità di trattamento nei confronti di pazienti ad elevato rischio chirurgico”.
I progressi tecnologici compiuti nell’ambito dei dispositivi medici hanno, infatti, permesso la messa a punto di tecniche chirurgiche per trattare le patologie del rachide, che permettono di far recuperare nel modo migliore l’assetto anatomico-funzionale della colonna vertebrale stessa.
“Nelle fratture vertebrali da compressione le procedure più utilizzate sono la Vertebroplastica e la Cifoplastica con Palloncino – continua il Dottor Anselmetti – che consistono entrambe nell’iniezione di cemento all’interno del corpo vertebrale per stabilizzare la frattura, riducendo rapidamente la sintomatologia dolorosa e, nel caso della cifoplastica, correggendo anche la cifosi indotta dalla compressione della vertebra. Quest’ultima tecnica, infatti, prevede anche l’utilizzo di un palloncino, inserito per via percutanea, che una volta gonfiato risolleva la vertebra fratturata posizionandola il più vicino possibile all’altezza originale, permettendo quindi un riallineamento sagittale e di conseguenza un migliore equilibrio nella distribuzione dei carichi. La Vertebroplastica – aggiunge il Dottor Anselmetti – è pertanto indicata nelle fratture vertebrali osteoporotiche dolorose non recenti (verificatesi da oltre 90 giorni) che non rispondono alla terapia medica conservativa, mentre la Cifoplastica con palloncino trova le sue indicazioni migliori nelle fratture vertebrali dolorose recenti osteoporotiche (ma anche traumatiche) ove la correzione della cifosi è ancora possibile”.
I vantaggi correlati a queste procedure sono numerosi: dalla rapidità con cui viene restituita la mobilità al paziente ai notevoli risparmi economico-sociali rispetto alle cure tradizionali, dal momento che vengono risparmiati costi di ospedalizzazione (sono interventi che prevedono un ricovero in day-surgery), riabilitazione e terapie farmacologiche contro il dolore.
Vantaggi che recentemente sono stati confermati anche dalla pubblicazione di studi clinici che dimostrano da un lato la superiorità della cifoplastica con palloncino rispetto al trattamento conservativo in pazienti con fratture vertebrali da compressione per un periodo di follow up complessivo di 24 mesi, dall’altro il maggior tasso di sopravvivenza dei soggetti trattati con chirurgia mininvasiva rispetto a coloro che non sono stati sottoposti ad intervento chirurgico.
Lo Studio FREE è un ampio studio multicentrico randomizzato che ha coinvolto 300 pazienti presso 21 Centri di 8 Paesi con fratture vertebrali da compressione acute e dolorose, di cui 149 trattati con la procedura della cifoplastica con palloncino e 151 con terapia conservativa. I dati a 12 mesi sono stati pubblicati nel febbraio 2009 su The Lancet, con un aggiornamento successivo a 24 mesi, pubblicato di recente su The Journal of Bone and Mineral Research. Gli autori hanno analizzato diversi parametri di riferimento, utilizzando questionari accreditati per misurare molteplici dimensioni quali la qualità della vita, la funzionalità fisica, i giorni di allettamento e inabilità, il dolore alla schiena, la soddisfazione del paziente.
A un mese dall’intervento i pazienti hanno manifestato, rispetto al gruppo di controllo, un miglioramento più marcato della qualità della vita, con recupero più rapido della funzionalità e della mobilità e una maggiore riduzione del dolore, benefici che si sono mantenuti costanti nell’arco di 24 mesi, come del resto aveva già dimostrato il follow-up a 12 mesi. Confermata anche la sicurezza della procedura: la frequenza complessiva di pazienti con un evento avverso era simile per entrambi i gruppi. Lo studio indica, inoltre, che i pazienti trattati con cifoplastica con palloncino non presentano un maggior rischio di fratture vertebrali successive rispetto al gruppo di controllo.
Il secondo, lo Studio SAVE, pubblicato recentemente su The Journal of Bone and Mineral Research, è uno studio clinico statunitense che analizza in quale proporzione i diversi tipi di trattamento delle fratture vertebrali da compressione possano impattare sulla mortalità dei pazienti.
Lo studio ha messo a confronto dati basati su un ampio campione di pazienti (oltre 850.000) con età superiore ai 65 anni, appartenenti al sistema assicurativo Medicare, sottoposti a trattamento chirurgico mininvasivo (vertebroplastica e cifoplastica con palloncino) o a trattamento conservativo (analgesici, terapia fisica, riposo a letto, presidi ortopedici), con un follow up di 4 anni. I risultati hanno dimostrato che i pazienti con fratture vertebrali trattate con intervento chirurgico di Cifoplastica con Palloncino o di vertebroplastica, hanno mostrato un tasso di sopravvivenza pari al 60,5%, con un aumento statisticamente significativo rispetto a quello del 50,0% osservato nei pazienti sottoposti a trattamento conservativo o non chirurgico (p<0,001). Il gruppo trattato chirurgicamente presentava, inoltre, una probabilità inferiore del 37% di andare incontro a decesso rispetto al gruppo sottoposto a trattamento non chirurgico (p<0,001).
“Un corretto trattamento conservativo o chirurgico della lesione scheletrica non può prescindere, tuttavia, da una valutazione diagnostica appropriata e da un programma completo per la prevenzione di ulteriori fratture, che tenga conto nel paziente anziano della tipica complessità medica associata alle comorbilità e alla polifarmacoterapia – dichiara Ortolani – Tutto questo richiede l’intervento coordinato di competenze professionali diverse, specifiche per i vari aspetti che devono essere affrontati da un programma efficiente di gestione del paziente con fratture da fragilità. Per raggiungere questo obiettivo si stanno affermando a livello internazionale nuovi modelli di gestione clinica del paziente con frattura osteoporotica, definiti “Fracture Unit”, che integrano in modo sistematico l’intervento di
specialisti diversi che, a seconda dei casi, possono comprendere ortopedici, reumatologi, geriatri, ginecologi, endocrinologi, fisiatri, internisti, nefrologi, radiologi, psichiatri, neurologi, oculisti.
Questo tipo di approccio clinico multidisciplinare favorisce, inoltre, una maggiore attenzione da parte del Medico di Medicina Generale nei confronti di un problema che troppo spesso viene affrontato con passiva rassegnazione. Contro questo tipo di atteggiamento – conclude Ortolani – esistono evidenze scientifiche che dimostrano come la riduzione del numero di fratture da fragilità sia un obiettivo possibile, così come la decisione del Ministero della Salute di porre la prevenzione della fratture da fragilità tra le priorità del Sistema Sanitario Nazionale, promuovendo, tra altre iniziative, alcune esperienze pilota di Fracture Unit”.