Schizofrenia e disturbi sociali: la natura svelata da studi italiani

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Sono tipici della patologia che colpisce l’un per cento della popolazione adulta, in cui, a tratti, si perde il senso della realtà. Un lavoro dell’università di Chieti e di Parma rivela le alterazioni del funzionamento cerebrale in chi ne soffre. E mette in evidenza le basi neurali di uno dei tratti chiave: l’incapacità di stabilire un confine preciso fra il sé e l’altro.

ALLUCINAZIONI, deliri, tendenza ad isolarsi. Chi soffre di schizofrenia a volte perde il senso della realtà e si sente spaventato, confuso. Un tratto tipico di questo disturbo che colpisce l’uno per cento della popolazione adulta, è la disfunzione sociale: l’altro diventa un enigma indecifrabile, genera ansia, portando ad una serie di meccanismi compensatori che si traducono in comportamenti psicotici.

Ciò che non è chiaro in questa malattia complessa ed invalidante è se i deficit sociali riguardino le relazioni con gli altri individui o abbiano le proprie radici nei disturbi dell’esperienza in prima persona del proprio corpo. Ora uno studio italiano dell’università di Chieti e di Parma, guidato da Vittorio Gallese, professore di fisiologia al dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma 1, dà una nuova spiegazione della natura dei disturbi sociali caratteristici della patologia, rivelando le alterazioni del funzionamento cerebrale in chi ne soffre. E mettendo in evidenza le basi neurali di uno dei suoi tratti chiave: l’incapacità di stabilire un confine preciso fra il sé e l’altro.

Usando la tecnica della risonanza magnetica funzionale, Gallese e i suoi colleghi, che hanno pubblicato i risultati del loro studio su Social Cognitive and Affective Neuroscience 2, hanno osservato le risposte cerebrali a situazioni sociali riguardanti l’osservazione di sensazioni corporee vissute da altri. Ed hanno visto che nei pazienti schizofrenici ci sono attivazioni neurali diverse rispetto agli individui sani, in regioni cerebrali coinvolte durante l’esperienza soggettiva di sensazioni corporee tattili.

 

In particolare nella corteccia premotoria – coinvolta normalmente nella percezione di sensazioni corporee e nell’integrazione del controllo motorio con le informazioni sensoriali visive, tattili ed uditive – e nell’insula posteriore, fondamentale non solo nella percezione delle sensazioni corporee ma nel distinguere il sé dagli altri in situazioni di “affettività sociale”. Funzioni importanti, “perché rendono possibile il senso di possedere le proprie esperienze, come azioni e sensazioni. Ciò è quanto appare disturbato nella patologia schizofrenica”, spiega Sjoerd Ebisch dell’Università di Chieti e co-autore principale del lavoro. “Le alterazioni nervose rivelate dal nostro studio potrebbero essere alla base della ridotta capacità di distinguere le proprie esperienze da quelle degli altri nelle interazioni sociali, e di comprendere intuitivamente il senso di queste stesse interazioni”.

 

Tutto è partito dai neuroni specchio, scoperti da un gruppo di scienziati dell’università di Parma, fra cui proprio Gallese, nel 1991. Sono cellule nervose che si attivano sia quando si fa una cosa in prima persona che quando si osserva un altro compiere la stessa azione. Grazie a meccanismi verosimilmente analoghi,  basta scorgere un’emozione su un viso o percepire che la gamba di un altro viene sfiorata per simulare nel nostro cervello una sensazione corrispondente. Questo meccanismo è ciò che Gallese definisce “simulazione incarnata”.

 

“Diversi anni fa abbiamo iniziato a pensare che questa potesse essere solo la punta di un iceberg e che la stessa logica fosse applicabile ad ambiti diversi, come quello delle sensazioni e delle emozioni”.  Alla luce di questo modello, si è deciso di concentrarsi su due patologie in cui il tema dell’intersoggettività risulta centrale, spiega ancora il professore: la psicosi schizofrenica e l’autismo infantile, molto diverse fra loro ma con un tratto comune, ossia i problemi di relazione con l’altro.

 

Finora queste patologie sono state studiate con un approccio “dall’alto”, cognitivista, senza concentrarsi sulla dimensione “incarnata” dell’esperienza in prima persona. “Questo lavoro ne segue uno diverso ed è solo il primo di una serie”, racconta ancora Gallese.

 

I pazienti sono stati osservati a sei mesi dal primo episodio di schizofrenia. Ed è emerso che durante la “percezione sociale”  –  i pazienti guardavano il video di una mano toccata da un’altra mano, accarezzata o schiaffeggiata – nei soggetti schizofrenici l’area della corteccia premotoria si attivava molto meno rispetto al gruppo di controllo. E risultava tanto meno attiva quanto più gravi erano i sintomi della malattia riguardo all’esperienza del sé. L’insula posteriore, invece, che negli individui sani si “spegne” quando si osservano esperienze tattili nell’altro, nei soggetti schizofrenici rimaneva attiva.

 

“La schizofrenia si caratterizza per un problema di confine del sé corporeo – riassume Gallese – e qui forniamo una chiave di lettura, mettendo in evidenza le basi neurali del problema chiave: non essere in grado di tracciare confini netti fra il sé e l’altro”.

 

All’estero il lavoro ha suscitato parecchio interesse. Per Georg Northoff, dell’Institute of Mental Health Research dell’Univeristà di Ottawa, si tratta di uno studio unico dai risultati importanti, “che mostrano come i pazienti schizofrenici perdono letteralmente il contatto con la realtà in quanto incapaci di integrare il loro sé con quello degli altri e quindi con l’ambiente sociale”, con conseguenze di rilievo per la comprensione non solo della malattia ma del funzionamento del cervello.

 

Già Freud aveva ipotizzato che un’alterazione nella distinzione tra “me e altro da me” fosse alla base del pensiero psicotico, sottolinea Mark Solms, curatore della nuova edizione standard integrale dei lavori psicologici del padre della psicoanalisi: per l’esperto questo lavoro “fornisce una nuova base scientifica alla sua teoria”.

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