Epatite C: in arrivo nuovi farmaci e nuovi stratagemmi per disinnescare il virus

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Virus

È una macchina, capace di eseguire più di 500 operazioni diverse, indispensabili per far funzionare l’organismo e liberarlo dalle tossine.

Ha potenzialità enormi, dal momento che sfrutta soltanto il 25 per cento delle sue capacità di lavoro. Non ha paura del bisturi perché si rigenera completamente nel giro di tre settimane, anche quando viene ridotto di tre quarti. Parliamo del fegato, del più grande e complesso organo solido del corpo umano. Un organo unico che, però, ha molti nemici: alcol, difetti genetici, eccessivo consumo di grassi e, soprattutto, virus. «I virus dell’epatite B e C sono i suoi killer numero uno — ha commentato Stephen Locarnini del Victorian Infectiuos Diseases Laboratory di Melbourne in occasione della conferenza Apasl (Asian Pacific Association for the Study of the Liver) —. E sono subdoli: proprio perché il fegato ha grandi capacità di difesa personale, i sintomi di un’infezione si possono manifestare a distanza di tempo, a differenza, per esempio, di un attacco di cuore che, nella maggior parte dei casi, provoca subito un dolore».

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, le epatiti virali sono una «bomba a tempo»: una volta che cronicizzano possono portare a fibrosi, cirrosi e addirittura carcinoma del fegato. Ecco allora che il primo obiettivo è la prevenzione, con regole igieniche (attenzione ai rapporti sessuali soprattutto per la B e al contagio con il sangue infetto attraverso aghi, e quindi tatuaggi e piercing, o rasoi) e il vaccino (per la B). Obiettivo numero due: disinnescare la bomba a tempo, rappresentata dalle forme croniche, con i farmaci. Per la B non ci sono grandi novità, tranne alcuni nuovi dati che riguardano l’impiego degli antivirali nel mondo reale, cioè, nella quotidianità «Una serie di studi — ha detto Harry Janssen dell’Erasmus University Hospital di Rotterdam — ha dimostrato che l’entecavir è efficace in diverse tipologie di pazienti: giovani e anziani, soggetti con diabete, osteoporosi o alterazione della funzionalità renale, e obesi. Gli antivirali non guariscono, ma tengono sotto controllo la carica virale (la quantità di virus nel sangue), così da impedire la progressione verso la cirrosi».

Per l’epatite C, invece, si può pensare alla guarigione, grazie soprattutto ai nuovi farmaci in sperimentazione. A Taipei, sono stati resi noti i dati di un studio, in contemporanea con la pubblicazione sul New England Journal of Medicine, che dimostrano come un trattamento duale, con gli antivirali daclatavir e asunaprevir, sia in grado di controllare l’infezione, senza l’aiuto dell’interferon alfa, un farmaco che comporta diversi effetti collaterali. Ma facciamo un passo indietro. La storia dell’epatite C ripercorre un po’ quella dell’Aids perché, come l’Hiv, il virus C muta rapidamente. Ecco spiegate le difficoltà di mettere a punto un vaccino. Ecco perché le speranze di controllare (e di guarire la malattia) risiedono nei farmaci, prima somministrati da soli, ora in cocktail (come era accaduto per l’Aids). I primi a entrare in terapia sono stati l’interferon alfa (una sostanza che stimola il sistema immunitario dell’organismo a difendersi contro i virus) e gli antivirali classici (la ribavirina). Poi sono arrivati gli inibitori delle proteasi o di altri enzimi che permettono la replicazione del virus nella cellula umana (il telapreviro o il boceprevir, di prima generazione, tanto per fare qualche nome, il daclatasvir e l’asunaprevir, più nuovi, ma ce ne sono tantissimi in sperimentazione: questi composti si chiamano anche DAAs o direct-acting antivirals).

«L’obiettivo della terapia — ha precisato Jacob Georgedell’University of Sydney — è quello di ridurre la carica virale a livelli non rintracciabili, il che equivale a una vera e propria “cura”, perché si impedisce l’evoluzione verso la cirrosi e il carcinoma del fegato». Adesso si sta facendo strada l’idea della multiterapia, con l’obiettivo di migliorare l’efficacia e la tollerabilità dei trattamenti e di ridurne la durata. La strategia che suggerisce di eliminare l’interferon (nonostante la nuova versione, l’interferon lambda, abbia meno effetti collaterali rispetto all’interferon alfa) si è rivelata efficace come ha, appunto, dimostrato la pubblicazione sul New England Journal of Medicine. L’altra è quella di sperimentare nuove combinazioni, che permettano anche di trattare i pazienti più difficili e i virus con genotipi resistenti ai farmaci. Come dire che ci si sta avvicinando all’obiettivo finale della terapia dell’epatite cronica C: guarire con un regime semplice, somministrabile per bocca e pan-genotipico (contro tutti i tipi di virus noti).
Corriere.it

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