Le radici genetiche della schizofrenia

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Un nuovo studio ha considerato un’ampia messe di dati arrivando a individuare i geni più probabilmente candidati a predisporre allo sviluppo della patologia. Oltre a ciò, lo studio ha individuato i meccanismi fisiopatologici mediante i quali si esprimerebbe questa predisposizione.

Nuove tessere del mosaico delle conoscenze sulla componente genetica della schizofrenia sono state aggiunte grazie a una ricerca pubblicata sulla rivista “Molecular Psychiatry” a firma di Mikias Ayalew del Dipertimento di psichiatria dell’ Università dell’Indiana.

Da anni per questo come per altri devastante disturbi psichiatrici si è arrivati a definire l’ipotesi definita “diatesi-stress”, secondo cui particolari condizioni ambientali possono favorire l’espressione di una predisposizione genetica. Finora però è mancata la possibilità di condurre studi genetici e funzionali integrati per definire un quadro biologico coerente.

In quest’ultimo studio, Ayalew e colleghi hanno utilizzato i dati deigenome-wide association studies (GWAS) raccolti finora in questo campo e applicato l’approccio denominato CFG (convergent functional genomics) da loro stessi sviluppato negli ultimi dieci anni, grazie al quale è stato possibile integrare precedenti risultati su mutazioni genetiche associate alla schizofrenia, biomarcatori di psicosi, dati riguardanti l’espressione genica di campioni di sangue e di tessuto cerebrale, umani e da modelli animali.

Tutti insieme, questi dati hanno permesso di identificare i candidati geni di predisposizione alla patologia, formando un elenco in cui figurano in ordine d’importanza: DISC1, TCF4, MBP, MOBP, NCAM1, NRCAM, NDUFV2, RAB18 oltre ad ADCYAP1, BDNF, CNR1, COMT, DRD2, DTNBP1, GAD1, GRIA1, GRIN2B, HTR2A, NRG1, RELN, SNAP-25, TNIK.

Oltre a ciò sono stati identificati alcuni meccanismi fisiopatologici alla base della schizofrenia e che riguardano lo sviluppo cerebrale, la produzione di mielina, l’adesione cellulare, la segnalazione mediata dal recettore per il glutammato, dal recettore accoppiato alla proteina G e dall’adenosina monofosfato ciclico (cAMP).

L’individuazione di questi meccanismi apre la strada, secondo gli stessi autori, a nuovi studi su possibili approcci terapeutici per la malattia.

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