Un modello del cervello come “macchina cognitiva tuttofare”
La visione tradizionale della neurofisiologia come un insieme di moduli dedicati a scopi specifici potrebbe essere superata da un modello del cervello come “macchina cognitiva tuttofare”.
Uno dei punti più dibattuti è se il cervello sia costituito da una serie di moduli simili ai mattoncini del LEGO, ciascuno dei quali è il risultato di adattamenti evolutivi che hanno prodotto strumenti mentali per attività diverse come correre dietro ai mammut, formare clan e comunicare informazioni sul cibo, il riparo o l’accoppiamento. Il concetto può essere espresso anche usando la metafora del coltellino svizzero: ogni modulo adattativo è equivalente a un cavatappi, a un tagliaunghie o a una serie di altri strumenti.
Un nuovo punto di vista rifiuta questa secca parcellizzazione del funzionamento della mente, sostenuta da psicologi come Leda Cosmides e John Tooby, e propone invece la metafora della mano: un unico strumento multiuso con cui è possibile toccare, picchiettare, spingere e tirare. Un’esposizione di questo nuovo modo di pensare è apparso sull’ultimo numero della rivista “Philosophical Transactions of the Royal Society of London B”.
La metafora della mano, sottolinea Cecilia Heyes di Oxford in un articolo introduttivo, allude alle diverse capacità di un arto in grado di “togliere le spine da un frutto rendendolo commestibile, oppure, in una danza tailandese, comunicare le più piccole sfumature di un’emozione. La mano umana svolge con identica facilità un’ampia gamma di compiti che la selezione naturale ha ‘previsto’ solo in parte”.
L’analogia della mano si può trasferire alla neurofisiologia. Al livello più basilare, questa nuova nozione postula che il cervello non si sia sviluppato attraverso una dicotomia tra funzioni cerebrali superiori e i riflessi automatici, quelli che per esempio ci permettono di colpire al volo una palla da baseball. Questo si può osservare nella neocorteccia e nel cervelletto: il controllo esecutivo nella neocorteccia non è una sorta di programma esecutivo secondario sviluppatosi indipendentemente dalle funzioni sensomotorie del cervelletto. Spiega Heyes: “La coevoluzione di queste strutture non solo nei primati ma anche nelle specie ancora più antiche – in tutte le linee filogenetiche dei mammiferi – implica che, in termini evolutivi, la divisione tra intelligenza superiore e intelligenza sensomotoria, tra pensiero e azione, è artificiale”. In altre parole, si tratta di un solo grande sistema integrato che assume un’identità funzionale quando risponde all’ambiente, in virtù di una forma d’interazione che gli esperti definiscono “cognizione incorporata”.
Chi è legato a una visione più tradizionale afferma invece che i nostri antenati dell’Età della pietra svilupparono un insieme di capacità di pianificazione, denominato “astrazione concettuale” per disorientare e infine sopraffare la preda. I “revisionisti” controbattono sostenendo che questi – e altri – aspetti della cognizione esistevano almeno sei milioni di anni fa nell’antenato comune di scimpanzé ed esseri umani e perciò non erano semplici aggiunte destinate a compiti specifici apparse ben più tardi con l’Età della pietra. La linea evolutiva che ha portato all’invenzione dei computer permise di raffinare queste capacità per migliorare le interazioni sociali fino a un livello che non esiste negli scimpanzé, permettendo ai cacciatori-raccoglitori di agire come “un unico organismo predatorio altamente competitivo”. Tuttavia, le linee evolutive degli scimpanzé e degli ominidi tendevano nella stessa direzione.
La nuova psicologia evoluzionistica attribuisce anche un nuovo ruolo all’evoluzione culturale, usando una terminologia influenzata dal mondo della genetica ed espressioni quali: “imitazione differenziale di singole varianti culturali”.
“Complessivamente questa visione emergente della cognizione sostituisce i “gadget cognitivi dedicati a uno scopo specifico”, soggetti a una limitata influenza da parte dell’ambiente, con macchine pensanti che utilizzano un insieme comune di computazioni per ogni genere di compito, dalla produzione di utensili alla mentalizzazione dei comportamenti che ne consente l’imitazione. Una nuova prospettiva che aiuta a spiegare in che modo riusciamo a risolvere i problemi tecnici e sociali che si presentano ogni giorno quando questa macchina cognitiva tuttofare incontra il mondo al di là delle pupille.
Versione originale dell’articolo, da Le Scienze