Neuroscienze: perdita della memoria vista come processo reversibile
La perdita di memoria sarebbe un fenomeno reversibile. A sostenerlo è una ricerca americana condotta su un particolare mollusco marino con cellule cerebrali simili a quelle umane
MILANO – Un team di neuroscienziati dell’Università del Texas, Health Science Center, sostiene di essere riuscito a invertire il processo di perdita di memoria in una lumaca di mare, l’Aplysia californica. Questo animale, sebbene anatomicamente molto differente dall’uomo, è dotato di un sistema nervoso estremamente semplice e costituito da poche cellule nervose, che però hanno proprietà molto simili a quelle di animali più evoluti, uomo compreso. Questo rende questa specie di molluschi un utilissimo modello per gli studi sul cervello, anche in virtù del fatto che i loro neuroni sono i più grandi dell’intero regno animale, arrivando a dimensioni di circa 1 millimetro di diametro (quelli umani sono 100 volte più piccoli).
LO STUDIO – I ricercatori hanno messo a punto un sofisticato modello matematico in grado di prevedere i processi biochimici che rendono il cervello di questi animali più sensibile all’apprendimento. Questo modello prevede cinque sessioni di allenamento a differenti intervalli di tempo che variano da 5 a 50 minuti, è in grado di mettere a punto 10mila programmi differenti e di individuare quello più adatto all’apprendimento. Per verificare l’efficacia di questo metodo gli scienziati americani hanno simulato una malattia cerebrale in una coltura cellulare costituita da cellule sensoriali delle lumache marine, bloccando l’attività di un gene deputato alla produzione di una proteina (denominata CBP o CREB-binding protein) strettamente collegata alla memoria a lungo termine. Negli esseri umani questa condizione è conosciuta come sindrome di Rubinstein-Taybi. Per simulare invece le cinque sessioni di allenamento la coltura cellulare è stata trattata con serotonina (un neuro-trasmettitore che regola l’apprendimento) a precisi intervalli di tempo definiti grazie al modello matematico. E, come era nelle speranze dei ricercatori, grazie all’esatta scelta dei tempi, i neuroni prelevati dall’Aplysia californica hanno superato l’ostacolo dei bassi livelli di CBP e hanno stabilito nuove sinapsi, paragonabili a quelle di un individuo sano.
IL FUTURO – «Nonostante vi sia ancora molto lavoro da fare – ha precisato l’autore della ricerca, John Byrne – abbiamo dimostrato l’attuabilità della nostra strategia mirata a ridurre i deficit di memoria». La speranza ora è quella di individuare gli stessi processi biochimici nel cervello degli esseri umani, in modo tale da applicare lo stesso modello matematico per giungere alla creazione di terapie che ottimizzino la sinergia tra i protocolli riabilitativi e quelli farmacologici. «È probabile che la combinazione di queste due terapie – ha aggiunto ancora John Byrne – abbia un effetto significativo nel compensare, almeno in parte, qualunque limitazione o effetto indesiderato dei farmaci, pertanto potrebbe trovare un’ampia applicazione nella cura dei deficit di apprendimento e di memoria».