Il ruolo dell’amigdala come ‘centralina’ per l’esagerata anticipazione del dolore conseguente alle possibili perdite derivanti da una scelta
I ricercatori dell’Università Vita-Salute San Raffaele, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista The Journal of Neuroscience e finanziato dalla Fondazione Cariplo e da Schroders Italy SIM, mostrano che è l’amigdala, il centro neurale della paura e dell’ansia, a fare da “centralina” per l’esagerata anticipazione del dolore conseguente alle possibili perdite derivanti da una scelta.
I ricercatori del Centro di Neuroscienze Cognitive e del CRESA – Centro di Ricerca in Epistemologia Sperimentale e Applicata – del San Raffaele si sono concentrati sull’origine delle differenze individuali nell’avversione alle perdite, e, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, le hanno individuate in un complesso insieme di risposte cerebrali. E’ addirittura il volume dell’amigdala a spiegare le differenze tra i singoli individui nella propensione a cadere vittime di questa insidiosa “trappola” decisionale. L’amigdala è una struttura cerebrale posta nella profondità di ciascuno dei due emisferi cerebrali, essenziale per le capacità di apprendere i pericoli intorno a noi, di riconoscerli e preparare l’organismo ad una risposta adeguata, ad esempio “combatti o scappa”.
Prendere decisioni implica la capacità di prevedere le conseguenze positive e negative di ogni possibile scelta. Questo consente di soppesarle attentamente, per arrivare a selezionare quella che riteniamo più vantaggiosa. Come dimostrato dagli studi del Premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, però, in questo processo di anticipazione mentale le possibili perdite “pesano” tipicamente più dei guadagni. Nelle nostre scelte, cioè, preferiamo evitare le perdite all’ottenere guadagni, almeno finché il possibile guadagno non è pari a circa il doppio della possibile perdita. Questo fenomeno pressoché universale, noto come “avversione alle perdite”, secondo gli esperti sta contribuendo ad aggravare l’attuale crisi economica. Le neuroscienze cognitive si sono interrogate per anni sul possibile ruolo delle emozioni nel sopravvalutare le conseguenze negative delle decisioni: il nostro cervello non sembra anticipare dei freddi numeri, ma piuttosto dei sentimenti negativi.
Durante l’esperimento ai volontari è stato chiesto di accettare o rifiutare una serie di scommesse che, come succede quando si gioca a “testa o croce”, avrebbero consentito di vincere o perdere dei punti con probabilità pari al 50%. Le possibili vincite e perdite variavano di volta in volta: a volte erano entrambe grandi, a volte entrambe piccole, a volte molto diverse tra loro. In alcuni casi la possibile vincita era circa il doppio della possibile perdita, ovvero la tipica situazione in cui emerge un conflitto tra accettare, assumendosi il rischio della scommessa, o rifiutare, garantendosi la sicurezza di rimanere fermi al punto di partenza.
La variabilità dei possibili risultati ha consentito di identificare le regioni cerebrali che, rispetto allo stato di riposo, aumentano o riducono la loro attività in maniera proporzionale ai possibili guadagni e perdite. Il sistema dopaminergico, un insieme di strutture del cervello che si parlano tra loro utilizzando come mediatore la dopamina, si attiva quando anticipiamo i guadagni e si disattiva quando anticipiamo le perdite. Un altro sistema emotivo, centrato sull’amigdala, si attiva per le perdite e si disattiva per i guadagni. Ma, a parità di somma in gioco, le risposte associate alle perdite sono generalmente più intense di quelle associate alle vincite, e l‘entità di questa asimmetria, che varia da persona a persona, riflette la tendenza di ciascun individuo ad essere avverso alle perdite. Non solo: questa tendenza è anche fortemente collegata alle dimensioni dell’amigdala, ovvero è maggiore in chi ha un’amigdala più grande. Queste differenze, ovviamente, non sono visibili ad occhio nudo, ma emergono chiaramente con le sofisticate analisi condotte.
Oggi sappiamo che l’amigdala riconosce anche i possibili pericoli insiti nelle nostre stesse azioni e che la sua attivazione ci spinge più spesso di quanto sarebbe razionale, ad evitare di agire. Questo “freno” al comportamento ci può salvare la vita ma, se non è a sua volta tenuto sotto controllo dal cervello “razionale”, ci può impedire di cogliere le opportunità offerte dall’ambiente. L’esperienza ci insegna che le persone sono tra loro molto diverse da questo punto di vista: i risultati di questo studio costituiscono quindi un punto di partenza per studiare il ruolo dei fattori genetici e delle esperienze di vita nell’influenzare, tra l’altro, la nostra propensione a correre rischi o, piuttosto, a stare sul sicuro.