Anemia: una patologia da affrontare con ferrea determinazione
- Nasce “Anemia Alliance”, un’associazione indipendente per sensibilizzare la comunità medico scientifica, gli stakeholder e l’opinione pubblica sull’importanza dell’anemia, stimolando nuove politiche di intervento e linee guida aggiornate.
- Le problematiche causate dalla carenza di ferro nei pazienti cardiopatici. Al via programmi educazionali e di comunicazione oltre a studi clinici, epidemiologici e di costo-efficacia.
Roma, 13 dicembre 2013 – La carenza di ferro è il disturbo nutrizionale più comune al mondo e colpisce oltre un quarto della popolazione mondiale, ma è anche la causa più frequente di anemia di cui soffrono – secondo stime dell’OMS – circa 700 milioni di persone.
La carenza di ferro e l’anemia sono gravi comorbilità, che insorgono frequentemente in diversi quadri clinici come, ad esempio, la malattia renale cronica, le malattie infiammatorie intestinali, lo scompenso cardiaco, ma anche nel corso di sanguinamenti uterini gravi e chemioterapia.
Per quanto riguarda l’insufficienza cardiaca, patologia che colpisce in Italia circa 1 milione di persone (300 mila delle quali di età inferiore ai 60 anni), e che è diventata negli ultimi anni la prima causa di ricovero ospedaliero (170.000 ricoveri l’anno) dopo il parto naturale, alcuni studi hanno dimostrato che l’anemia è un fattore di rischio indipendente per mortalità ed ospedalizzazione, già molto elevati in questa popolazione di pazienti.
Ciononostante, dalla letteratura e dalla pratica clinica si evince che nell’insufficienza cardiaca tale problematica è fortemente sottostimata e sotto trattata, permanendo una percezione di scarsa gravità della stessa e un deficit educazionale.
Alla luce di ciò, per colmare questo gap, lo scorso 11 dicembre è stata costituita l’Associazione non-profit “Anemia Alliance”, come piattaforma indipendente che ha, come principale scopo, quello di promuovere la diffusione della conoscenza dell’anemia tra gli operatori sanitari e non solo, al fine di prevenirla, curarla e gestire le relative complicanze e disabilità. L’Associazione si pone anche l’obiettivo di avviare programmi educazionali e di comunicazione, oltre che di sostenere studi clinici, epidemiologici e di costo-efficacia correlati all’anemia, per contribuire al cambiamento dell’approccio alla malattia.
“L’anemia, a prescindere dall’eziologia, colpisce nel mondo 1.62 miliardi di persone – dichiara il Professor Robin Foà – Direttore dell’Istituto di Ematologia presso l’Università Sapienza di Roma, past-President della Società Europea di Ematologia (EHA) e Presidente della neo costituita associazione “Anemia Alliance” – pari al 24,8% della popolazione globale (WHO, 2008), rappresentando, di fatto, la più frequente patologia al mondo. La fascia di età percentualmente più interessata corrisponde ai bambini in età prescolare (47,4%); tuttavia le donne in età fertile sono, in assoluto, il gruppo di pazienti numericamente più importante (circa mezzo miliardo). Dal punto di vista geografico – continua Foà – l’Africa è il continente a più alta percentuale di anemia nella popolazione generale (47,5% – 67,7%), così come il più elevato numero in assoluto di anemici è presente nel sud Est Asiatico (315 milioni), ma il “Global WHO Anaemia Data Base” ci mostra come l’anemia sia un vero e proprio problema di salute pubblica, che non riguarda solo le nazioni più povere. Non esiste, infatti, alcun Paese in cui la problematica non sia presente, sia pur in modo limitato.”
La carenza di ferro è responsabile di circa il 50% di tutte le anemie. Il ferro non è solo una componente funzionale dell’emoglobina, ma è necessario anche per assicurare il funzionamento corretto di molte tra le più importanti vie metaboliche.
“I pazienti anemici soffrono spesso di un grado variabile di stanchezza, mancanza di concentrazione, maggior predisposizione alle infezioni e hanno una scarsa qualità di vita. Ciò – aggiunge Foà – si ripercuote negativamente sulla produttività e la capacità lavorativa. La gestione della carenza di ferro e dell’anemia ha come obiettivo l’apporto di adeguati quantitativi di ferro per normalizzare e mantenere livelli target di emoglobina, stimolando una corretta eritropoiesi e ricostituendo le riserve di ferro nell’organismo”.
Gli attuali regimi terapeutici oggi prescritti, tuttavia, risentono della carenza di protocolli ancora ben standardizzati: da un lato, i preparati orali permettono di assorbire solo il 10-20% di ferro e non sono sempre accettati favorevolmente dai pazienti perché possono causare intolleranza gastro-intestinale, dall’altro la somministrazione per via intravenosa si avvale di farmaci poco maneggevoli, che implicano un numero elevato di infusioni della durata di alcune ore ciascuna, e possono essere associati a fenomeni allergici.
“Per quanto riguarda il mio ambito di competenza – dichiara il Professor Francesco Fedele, Direttore del Dipartimento Malattie Cardiovascolari e Respiratorie del Policlinico Umberto I di Roma e Direttore della Scuola di Specializzazione di Malattie Cardiovascolari presso l’Università Sapienza di Roma – da un punto di vista fisiopatologico, l’anemia sideropenica, oltre a creare il ben noto deficit nell’eritropoiesi, altera il metabolismo ossidativo dei muscoli scheletrici e del cuore, aggravando il deficit funzionale già presente nei soggetti affetti da scompenso cardiaco. Entrando nell’Anemia Alliance, il mio primo impegno è stato quello di dare vita a un’analisi osservazionale, lo Studio retrospettivo CARMES1, (Comparative Anemia Registry Monitored Efficacy Study) svolto in tre centri cardiologici del Lazio, tra cui quello da me diretto, con l’obiettivo di valutare la realtà clinica nella nostra Regione, ovvero la prevalenza dell’anemia, il suo impatto prognostico e l’efficacia dei trattamenti adottati nei pazienti con insufficienza cardiaca.”
“I risultati dello Studio – continua Fedele – hanno evidenziato come nei pazienti ricoverati per insufficienza cardiaca che presentavano anemia (circa il 36% del totale), nell’arco di un anno, solo in un terzo dei casi si è indagata la possibile causa dell’anemia stessa, e soltanto la metà dei pazienti con anemia sideropenica ha ricevuto un trattamento marziale, a base di ferro orale o endovenoso, in dosi e tempi non sempre appropriati, in parte anche a causa della scarsa tolleranza dei pazienti alle formulazioni a base di ferro disponibili. Comunque – aggiunge il Professor Fedele – dopo un mese di terapia, si è visto che solo l’11% dei pazienti trattati riesce a raggiungere il target terapeutico di emoglobina (Hb>12g/dl). I pazienti anemici nel CARMES 1, mostrano, inoltre, un tasso di ri-ospedalizzazione e mortalità a 6 mesi significativamente superiore rispetto ai non anemici”.
Lo Studio ha, quindi, confermato l’elevato peso prognostico dell’anemia, che risulta, però, ancora sottostimata da parte dei clinici e quindi spesso non trattata, nonché la scarsa efficacia degli attuali trattamenti.
“Alla luce di tale carenza diagnostico-terapeutica, e delle nuove strategie marziali disponibili – conclude Fedele – stiamo facendo partire altri due studi, CARMES 2, uno “pilota” (che partirà a gennaio 2014) e un altro a livello nazionale (nel 2015) promosso dalla SIC – Società Italiana di Cardiologia. Lo studio pilota prospettico coinvolgerà 3 centri cardiologici (Brescia, Roma e Palermo) con lo scopo di comparare, nei pazienti con insufficienza cardiaca e anemia sideropenica, l’efficacia delle terapie marziali attualmente utilizzate nella pratica clinica, con il nuovo ferro-carbossimaltosio, formulazione iniettabile che permette la somministrazione di alte dosi di ferro in sole 1 o 2 infusioni endovenose nell’arco di 15 giorni. Nei due gruppi di studio, saranno misurati come parametri di efficacia l’aumento dei valori di emoglobina, sideremia e ferritina, la qualità della vita, e il tasso di ospedalizzazione e mortalità a 6 mesi, in base al trattamento marziale effettuato, insieme naturalmente ad una valutazione farmaco-economica di costo-efficacia”.
Il Professor Lorenzo Mantovani, del Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia, Università degli Studi di Napoli Federico II, ha sottolineato come l’anemia non rappresenti solo un importante problema clinico, ma anche organizzativo ed economico: “Non è possibile oggi stimare i costi dell’anemia in Italia, nonostante il quadro di gravità della malattia, che ci deriva dall’esperienza dei clinici e dai loro riferimenti sull’impatto del fenomeno in termini di ‘quantità’ (ovvero di tassi di mortalità) ma anche di ‘qualità’ della vita. Questo perché non conosciamo le reali dimensioni del problema, essendo l’anemia sotto-diagnosticata e mancando dati epidemiologici riferiti alle diverse aree terapeutiche interessate. Paradossalmente, conosciamo invece il valore della ‘soluzione’ al problema. Nei soggetti con insufficienza cardiaca congestizia e deficienza di ferro, una nostra analisi di costo-efficacia ha mostrato come, con le più recenti, efficienti e sicure terapie con ferro endovenoso, il rapporto di costo per QALY (Quality Adjusted Life Year – un indice sintetico che incorpora sia la quantità, sia la qualità della vita) appaia molto al di sotto dei limiti accettati dalle agenzie di technology assessment e dalla letteratura internazionale, pari circa a € 22.500 per QALY guadagnato”.