Leucemia mieloide acuta: le origini

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Una mutazione genetica presente in più cloni delle cellule staminali ematopoietiche può spiegare metà dei casi di ricaduta nei malati di leucemia mieloide acuta.

La scoperta suggerisce che quelle staminali debbano essere considerate un bersaglio terapeutico fin dalla prima insorgenza della patologia e prefigurano la possibilità di valutare il rischio di malattia nei soggetti aventualmente portatori di quella mutazione

Una mutazione in un gene che potrebbe svolgere un ruolo fondamentale – e finora sconosciuto – nello sviluppo della leucemia mieloide acuta (LMA) è stata individuata da un gruppo di ricercatori del Princess Margaret Cancer Centre dell’University Health Network di Toronto, che firmano un articolo su “Nature”. La mutazione – che riguarda il gene per la proteina DNA-metiltransferasi 3a – si annida nelle staminali ematopoietiche, e può spiegare la ricaduta della malattia in alcuni pazienti già andati in remissione grazie alla chemioterapia.

Nella leucemia mieloide acuta (LMA) le cellule staminali presenti nel midollo osseo (da qui il termine mieloide) invece di produrre i normali precursori delle cellule del sangue, ossia cellule che dopo un periodo di maturazione si differenziano in globuli rossi, piastrine e svariati tipi di globuli bianchi, iniziano improvvisamente a generare precursori incapaci di arrivare a maturazione ma dotatI di una straordinaria capacità di proliferazione, tipicamente tumorale.

L’aspetto più interessante della ricerca, con importanti implicazioni cliniche, è che la mutazione a carico della DNA-metiltransferasi 3a è stata individuata in differenti tipi di precursori delle cellule del sangue, ossia in diverse “linee clonali” delle staminali ematopoietiche di pazienti affetti da LMA. In particolare, nel 50 per cento dei pazienti che hanno subito una ricaduta della malattia dopo una chemioterapia i ricercatori hanno scoperto che il clone delle staminali da cui ha avuto origine la ricaduta non era correlato al clone predominante al momento della prima diagnosi, ma derivava da un altro clone, portatore anch’esso della mutazione.

Simili subcloni possono quindi rappresentare un serbatoio di cellule pre-leucemiche resistenti alla chemioterapia in grado provocare ricadute. Per questo osservano i ricercatori, anche le cellule staminali ematopoietiche pre-leucemiche dovrebbero essere prese direttamente di mira dalla terapia in modo da prevenire le ricadute.

La scoperta indica inoltre l’opportunità di ampliare la definizione di malattia minima residua (ossia, la quota residua di cellule neoplastiche non eradicate dalla terapia) per includere anche cellule staminali emopoietiche pre-leucemiche, monitorando costantemente la situazione dei pazienti portatori della mutazione.

Infine, concludono i ricercatori, sarebbe opportuno intraprendere nuovi studi per determinare il rischio di progressione a leucemia mieloide acuta in individui sani con cellule staminali ematopoietiche pre-leucemiche, in modo da formulare un’eventuale diagnosi precoce in soggetti che non presentano segni evidenti di problemi ematologici.

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