Parto con anestesia epidurale, senza dolore ma si allungano notevolmente tempi di travaglio
L’anestesia epidurale riduce sì il dolore, ma ha come effetto collaterale un aumento dei tempi di travaglio di almeno un paio di ore.
Secondo un nuovo studio, l’anestesia epidurale può aumentare di molto la durata del travaglio.
Da quando l’anestesia epidurale è entrata a far parte dell’ospedalizzazione di una donna in travaglio, ha senz’altro portato il sorriso a moltissime partorienti. Non solo l’anestesia è indolore, ma lo è quasi del tutto persino il travaglio.
Come in molte delle belle scoperte mediche, però, anche in questo caso c’è un piccolo effetto “collaterale”: il travaglio può divenire più lungo di due ore oltre quelle che ci sarebbero volute normalmente.
Per lo meno, questo è ciò che suggeriscono alcuni ricercatori dell’Università della California a San Francisco (UCSF) che hanno condotto uno studio coordinato dalla dottoressa Yvonne Cheng.
«L’effetto dell’epidurale può essere più lungo di quanto si pensa, ma finché il bambino sembra star bene e le donne fanno comunque progressi, non necessariamente si deve intervenire ed eseguire un taglio cesareo», spiega Cheng, specialista in medicina materno-fetale presso l’UCSF.
In merito ai dati acquisiti durante lo studio, le donne che portano in grembo il loro primo figlio di norma impiegano nella seconda fase del travaglio, circa 197 minuti (poco più di tre ore) di media, mentre con l’epidurale i tempi si allungano di molto: 336 minuti – circa cinque ore e mezza. La differenza che intercorre sfiora la media delle due ore. E non è certo poco.
Ma può essere persino più alta se si parla di donne che hanno già avuto un bambino. Nella seconda fase, infatti, impiegano indicativamente 81 minuti – quindi poco più di un’ora – senza epidurale e 255 minuti con l’anestesia (più di quattro ore).
Secondo gli studiosi, i parti cesarei sono aumentati notevolmente in questi ultimi anni, e questo generalmente è dovuto a un rallentamento del parto, probabilmente anche causato dall’aumento di interventi di anestesia epidurale. Tutto ciò, tuttavia, comporta un susseguirsi di problemi e rischi sia per la mamma che per il neonato, con ricoveri decisamente più lunghi.
Durante lo studio sono stati confrontati i dati relativi a parti avvenuti a San Francisco tra il 1976 e il 2008. Le donne ricoverate erano circa 42mila e la metà di queste ha ricevuto l’anestesia epidurale.
Dai risultati è emerso che mediamente una donna impiega due ore in più, partendo dalla seconda fase del travaglio, a partorire un bambino quando è stata sottoposta ad anestesia epidurale.
E’ indubbio che si tratta di una media e che vi sono comunque alcune donne che non impiegano tutto questo tempo, così come è difficile stabilire la velocità di parto di una persona:
«E’ probabilmente molto difficile conoscere [i tempi] per ogni singolo paziente», spiega Karin Fox a Reuters Health. La dott.ssa Fox non è stata coinvolta nello studio, ma è stata interpellata in qualità di specialista in medicina materno-fetale del Baylor College of Medicine e dell’Ospedale Pediatrico del Texas a Houston
Secondo il suo parere i risultati di tale studio non sono affatto sorprendenti, ma bisogna considerare altri fattori che possono allungare i tempi di travaglio. Così come ritiene che non si debba evitare l’anestesia solo perché può esserci il pericolo di un allungamento del travaglio. «Ci sono molte ragioni per avere l’epidurale», afferma Fox.
Il dottor Christopher Glantz, specialista di gravidanze ad alto rischio presso la University of Rochester Medical Center di New York chiarisce invece che sebbene la salute dei bambini nei gruppi epidurali non era identica a quelli che non avevano richiesto l’anestesia, le madri sicuramente hanno più probabilità di complicazioni se il travaglio è troppo lungo.
«Sembrerebbe che il limite massimo di ciò che può essere tollerato è più alto di quanto si pensasse, e questo toglierebbe un po’ di slancio a intervenire (con un taglio cesareo), in quello che sembra essere una moda prematura».
Cheng invita i medici a meditare sui dati da loro evidenziati e a pensare che quelli che sono stati utilizzati fino a ora forse non erano così precisi o sufficienti. In fin dei conti, le prove le possono ottenere sulle pazienti con cui ogni giorno hanno a che fare.