Danni all’udito: un singolo evento può essere permanente

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Orecchio

Un solo concerto rock o un’unica partita allo stadio potrebbero bastare per provocare danni permanenti all’udito. Lo sostiene una nuova linea di studi secondo i quali una singola esposizione a rumori forti – ma non necessariamente assordanti – può provocare la morte di alcune terminazioni non isolate delle fibre nervose che connettono l’orecchio interno al cervello.

Un’unica esposizione a rumori forti ma non assordanti potrebbe essere sufficiente a provocare un danno irreparabile ai nervi del sistema uditivo. Questo è il messaggio di una nuova linea di ricerca che potrebbe spiegare perché molte persone, specialmente con il passar degli anni, fanno fatica a isolare una conversazione dalla barriera del rumore di fondo, che è una costante di qualsiasi incontro di football o pranzo in un ristorante affollato.    Uno studio condotto negli ultimi cinque anni sugli animali  –  e alcuni nuovi dati provenienti dalla ricerca sull’uomo  –  stanno ribaltando storiche convinzioni sulla perdita dell’udito. In precedenza si credeva che l’unico effetto indesiderato dell’esposizione a rumori come quelli di una partita di calcio fosse la fastidiosa sensazione temporanea di avere le orecchie tappate, ma che in seguito le funzioni uditive tornassero quasi o del tutto normali.

L’idea era che ci volessero anni, se non decenni, di traumi alle nicchie sensibili dell’orecchio interno per uccidere le minuscole cellule ciliate nella cavità di endolinfa dove le vibrazioni delle onde sonore sono convertite in segnali elettrici per essere poi processate all’interno dell’encefalo. Solo la morte delle cellule ciliate era ritenuta capace di compromettere l’abilità di udire distintamente nella confusione del chiasso diurno. (Ovviamente, anche stare pochi secondi vicino al motore di un jet senza dispositivi di protezione sarebbe sufficiente a uccidere sul colpo tutte le cellule ciliate.)

Ma la descrizione dei libri di testo di ciò che capita alzando il volume potrebbe rivelarsi inadeguata per spiegare quello che succede ai molti milioni di persone che soffrono di perdita dell’udito indotta dal rumore. M. Charles Liberman e Sharon G. Kujawa, due neuroscienziati che studiano il sistema uditivo all’HarvardMedical School e al Massachusetts Eye and Ear Infirmary, hanno scoperto che le cellule ciliate possono sopravvivere a un concerto rock o a una festa scatenata, ma che le fibre nervose connesse che incanalano i segnali elettrici all’encefalo potrebbero invece subire danni permanenti.

Il loro lavoro su topi, cavie e cincillà ha confermato che un’unica esposizione a un suono forte può provocare la morte di alcune terminazioni non isolate delle fibre nervose che connettono l’orecchio interno all’encefalo, terminazioni la cui scomparsa rompe la connessione tra fibra nervosa e cellula ciliata localizzata nello spazio sinaptico. “Abbiamo ragione di pensare che la stessa cosa avvenga anche nell’orecchio umano” sostiene Liberman. “La struttura dell’orecchio interno è la stessa per tutti i mammiferi”.

La sua ipotesi è che, in condizioni di elevata rumorosità, le cellule ciliate rilascino nello spazio sinaptico un eccesso di molecola segnale  –  il neurotrasmettitore glutammato. In un periodo che oscilla da qualche mese a qualche anno, la disconnessione delle fibre porta alla morte dell’intero neurone,  di cui il nervo sinaptico non è che una lunga estensione.

Nell’uomo ci sono fino a 25 fibre nervose per ognuna delle 4000 cellule ciliate destinate alla conversione dei segnali uditivi. Quando alcune di loro muoiono, l’impatto iniziale sull’udito sarebbe minimo; se però esposizioni ripetute a suoni forti provocano una perdita continua di queste cellule, si verificherebbe un lento declino nell’acutezza dei suoni captati dalle orecchie. “Si può fare un’analogia con quello che accade quando si riducono i pixel di un’immagine: si capisce sempre che rappresenta qualcosa ma non si può più dire di cosa si tratta” sostiene Liberman.

Un audiogramma tradizionale non permette di rilevare la perdita di risoluzione uditiva perché misura solo se le cellule ciliate sono in grado di captare un suono di una certa elevatezza e frequenza. La soglia di rilevamento si alza dopo l’esposizione a un suono molto alto ma col passare di qualche ora o di qualche giorno, spesso torna ai livelli normali. Anche se l’esposizione al suono comportasse la morte del 90 per cento delle cellule nervose, l’audiogramma potrebbe apparire del tutto normale. In questo caso, l’individuo riuscirebbe ancora a sentire un amico che parla dall’altro estremo della tavola durante una cena, ma non a distinguere le singole parole.

Negli anni ottanta, Liberman effettuò molti studi che furono di capitale importanza per capire come il rumore provoca la morte delle cellule ciliate. Già allora era interessato a scoprire cosa accade alle fibre nervose connesse, ma fino a pochi anni fa non esisteva nessun colorante in grado di marcare le terminazioni dei nervi al microscopio.

La ricerca sta andando oltre gli animali da laboratorio. Il Walter Reed National Military Medical Center ha iniziato a studiare i veterani della guerra in Iraq che soffrono di deficit uditivi benché gli audiogrammi non mostrino anomalie. Liberman e Kujawa hanno esaminato più di 100 campioni di ossa temporali  –  che racchiudono l’orecchio medio e interno  –  osservando nei soggetti più anziani una netta diminuzione di neuroni che trasportano la rappresentazione elettrica del suono al cervello, mentre le cellule ciliate erano intatte.

Liberman e Kujawa hanno cominciato a riflettere su possibili protocolli terapeutici per ripristinare le sinapsi. Stanno valutando se iniezioni di fattori di crescita proteici attraverso una membrana all’interno dell’orecchio medio permettono alle fibre troncate di creare nuove sinapsi e ripristinare le normali funzioni uditive. I due ricercatori vogliono anche determinare se una simile perdita di fibre nervose ha un ruolo negli acufemi (fischi nelle orecchie), se provoca effetti sul sistema vestibolare uditivo e se compromette l’equilibrio.

Anche altri cominciano a interessarsi all’argomento. “Il lavoro di Charlie e Sharon ad Harvard è stato estremamente convincente nel dimostrare come, in modelli animali, suoni ad alto volume possono avere un effetto distruttivo e un impatto cumulativo sull’udito, compromettendone le prestazioni”, dice Frank Lin, professore di otorinolaringoiatria e chirurgia cervico-facciale al John Hopkins. “La loro ricerca pone l’accento sull’importanza e il bisogno di maggiori sforzi per conservare l’udito, in particolare riducendo al minimo l’esposizione cumulativa a forti rumori durante tutto l’arco della vita.”

Paul Fuchs, professore di neuroscienze e ingegneria biomedica al John Hopkins aggiunge: “La perdita di udito per sinaptopatia è un’importante elemento nuovo che migliora la nostra comprensione del sistema uditivo e della sordità, soprattutto perché i nuovi dati  mostrano che tali danni possono essere dovuti a esposizioni a rumori che in precedenza si credevano innocui.”

Se queste prove continuano ad aumentare, le politiche di sanità pubblica dovranno cominciare a tenerne conto. Liberman pensa che le ripetute esposizioni a rumori si possano paragonare ai tanti piccoli traumi subiti dai giocatori di football durante tutta la  carriera, molto prima che venga loro diagnosticata una forma di demenza detta encefalopatia traumatica cronica (CTE).

“Ci sono molte somiglianze con la CTE,” dichiara. “Rimani stordito da un trauma, ti senti meglio e credi di aver schivato la pallottola, per cui torni in campo e ricominci. Trent’anni dopo, il tuo cervello è diventato di pastafrolla e soffri di molti tipi di problemi.” L’udito funziona in modo simile, dice. “Piccoli, impercettibili danni corporei col tempo si fanno sentire.” E qualsiasi esposizione continuata a suoni sopra i 100 decibel potrebbe causare uno di quei piccoli, impercettibili danni, secondo Liberman.

(La versione originale di questo articolo è stata pubblicata suwww.scientificamerican.com. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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