Batteri che “traducono” diversamente il DNA in proteine. Un numero insospettato segue altre regole diverse dalle consosciute
In un numero insospettatamente elevato di batteri, le regole che presiedono alla traduzione del DNA in proteine, finora ritenute universali, differiscono da quelle usate da tutti gli altri organismi. In particolare, il segnale che solitamente indica che la produzione di una proteina è teminata, invece è usato per prescrivere l’aggiunta di un nuovo, specifico amminoacido. La scoperta ha implicazioni per la biologia sintetica.
Alcune regole di codifica del genoma non sono affatto universali come finora creduto. A svelarlo è stata una massiccia analisi genomica condotta su 5600 miliardi di coppie di basi (i mattoni costitutivi del DNA: adenina, citosina, guanina e timina) relative a oltre 1700 microrganismi. La scoperta è stata realizzata da un gruppo di ricercatori del Department of Energy Joint Genome Institute (DOE JGI) a Walnut Creek, in California, che la descrivono in un articolo a prima firma Natalia N. Ivanova pubblicata su “Science”.
Nel DNA le istruzioni dei geni per la produzione delle proteine sono codificate con un sistema di triplette di basi, dette codoni. A 61 dei 64 possibili codoni realizzabili con le quattro basi corrisponde l’istruzione di aggiungere uno specifico aminoacido alla proteina da costruire, i restanti tre sono detti codoni di stop, dato che segnalano che la costruzione della proteina è terminata. Ciascuno di questi codoni di stop ha un nome: amber, opal e ochre.
Nel corso di uno studio su una serie di microrganismi difficili da crescere in laboratorio, che di fatto costituiscono circa il 99 per cento di tutte le specie microbiche presenti sulla Terra, i ricercatori hanno individuato alcuni batteri che sembravano dotati di geni eccezionalmente brevi, formati da sole 200 coppie di basi di lunghezza, laddove i geni dei microbi hanno tipicamente una lunghezza compresa fra le 800 e le 900 coppie di basi. Si sono però accorti che se il codone opal non veniva interpretato come segnale di stop, la lunghezza dei geni tornava normale, e successivi esperimenti hanno confermato che effettivamente in quel batterio a opal corrispondeva il comando di aggiungere alla proteina l’amminoacido glicina.
Alla luce di questa scoperta Ivanova e colleghi si sono chiesti quanto frequente fosse in natura la deviazione dal sistema di codifica “canonico”, passando in rassegna 5600 miliardi lettere del codice genetico relativi a 1700 campioni batterici provenienti dai più diversi ambienti, dalle acque dolci a quelle marine, al terreno fino all’intestino di vari animali, uomo compreso.
“Siamo stati sorpresi di trovare che in natura un numero incredibile di batteri possiede tali questa riassegnazione di significato ai quei codoni che da segnale di stop diventano segnali di aggiunta di un amminoacido: in alcuni ambienti questa riassegnazione interessa fino al 10 per cento dei campioni”, dice Edwar d M. Rubin, che ha coordinato la ricerca.
Proseguendo la ricerca, Ivanova e colleghi hanno anche scoperto che questa nuova assegnazione di significato non riguarda solo i batteri, ma anche i fagi, i virus che infettano le cellule batteriche iniettandovi il proprio materiale genetico per sfruttare il macchinario cellulare della cellula al fine di riprodursi.
Finora si pensava che, per colonizzare il batterio, il fago dovesse necessariamente impiegare il codice genetico esatto che usa la cellula ospite, altrimenti il DNA non sarebbe tradotto correttamente. Invece, spiega Rubin, “abbiamo osservato fagi con vocabolari per i codoni che non corrispondono in alcun modo a quello dei loro ospiti batterici.”
A quanto pare il fago non si preoccupa dell’uso che il suo ospite fa dei codoni ed è evidentemente in grado di sfruttare qualche trucco molecolare – che i ricercatori hanno battezzato ‘guerra dei codoni’ – per aggirare il problema. Questo, ha concluso Rubin, andrà tenuto bene a mente soprattutto nella biologia sintetica, che crea organismi progettati con un codice genetico alterato intenzionalmente affinché funzioni da “firewall ” e impedisca lo scambio di informazioni genetiche tra gli microrganismi di laboratorio ingegnerizzati e i loro cugini in natura.