La prima volta che il DNA sintetico “ce la fa”.

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Ci sono riusciti i ricercatori dello Scripps Research Institute

Cellule in grado di replicare Dna sintetico contenente un alfabeto genetico espanso: ad ottenerlo sono stati i ricercatori dello Scripps Research Institute di La Jolla (Stati Uniti), che dopo più di un ventennio di studi sono riusciti a ottenere un plasmide (una molecola di Dna circolare) contenente due componenti artificiali oltre alle quattro che lo formano naturalmente, inserirlo in un batterio e permettere a quest’ultimo di duplicarlo efficientemente senza che gli elementi artificiali fossero eliminati dai meccanismi di riparazione del Dna e senza compromettere la capacità di crescita delle cellule.

La notizia arriva dalle pagine online della rivista Nature, sulle quali gli autori dello studio, guidati da Floyd Romesberg, hanno pubblicato i risultati dei loro ultimi esperimenti.

In realtà le ricerche di Romesberg e collaboratori sono iniziati negli ormai lontani anni ’90 e hanno portato alla pubblicazione di diversi studi, tutti però condotti solo in provetta. Nel corso degli anni i ricercatori hanno ottenuto più coppie di basi (i mattoncini che formano il Dna) non esistenti in natura, con l’obiettivo finale di ottenerne una in cui le basi fossero caratterizzate da un’affinità paragonabile a quella delle coppie naturali e in grado di inserirsi stabilmente nella doppia elica di Dna e di separarsi e tornare ad appaiarsi durante processi come la replicazione del Dna.DNA In quest’ultimo studio la più efficiente fra queste coppie – formata dalle basi artificiali d5SICS e dNaM – è stata utilizzata insieme alle coppie naturali per sintetizzare un plasmide che è stato inserito all’interno di Escherichia coli. Fornendo al batterio le due basi e una molecola necessaria per trasportarle all’interno delle cellule Romesberg e collaboratori hanno dimostrato che questo plasmide semi-sintetico può essere può essere replicato da una cellula vivente ad una velocità e con un’accuratezza accettabile, senza che le due basi artificiali fossero eliminate dai meccanismi di riparazione del Dna e senza compromettere la crescita del batterio.

Questi risultati, spiega Romesberg, dimostrano che “sono possibili altre soluzioni per immagazzinare l’informazione e, di sicuro, ci portano più vicini a una biologia del DNA espansa che avrà molte eccitanti applicazioni – dalle nuove medicine a nuovi tipi di nanotecnologie”. Prima di ottenerle sarà però necessario dimostrare che le cellule viventi possono utilizzare questo Dna artificiale anche per produrre Rna e proteine. A questo punto “potremmo codificare nuove proteine fatte di nuovi, non naturali amminoacidi – che ci darebbero più che mai la capacità di mettere a punto proteine per le terapie e la diagnosi e reagenti di laboratorio con funzionalità desiderate”.

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