Sistema immunitario: una scossa per riordinarlo
Una procedura sperimentale sta portando alla luce i collegamenti tra il sistema nervoso e quello immunitario. Secondo alcuni scienziati potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione nel trattamento di malattie autoimmuni come artrite reumatoide, morbo di Crohn e lupus
Il magnete accende un dispositivo impiantato sotto la pelle che emette una serie di impulsi elettrici – ciascuno di circa un milliampere, più o meno come la corrente di un tipico apparecchio acustico. Questi impulsi stimolano il nervo vago, un tratto di fibre nervose che corre giù lungo il collo dal tronco encefalico ad alcuni importanti organi, tra cui cuore e intestino.
La tecnica, chiamata stimolazione del nervo vago, è stata usata dagli anni novanta per curare l’epilessia, e dall’inizio degli anni duemila per trattare la depressione. Ma Katrin, un’istruttrice di fitness settantenne di Amsterdam, che ha chiesto di cambiare nome per questo articolo, lo usa per controllare l’artrite reumatoide, un disturbo autoimmune che causa la distruzione della cartilagine intorno alle articolazioni e ad altri tessuti. Uno studio clinico in cui è stata coinvolta cinque anni fa è il primo del suo genere effettuato su esseri umani e rappresenta il culmine di due decenni di ricerca sui rapporti tra sistema nervoso e immunitario.
Per Kevin Tracey, neurochirurgo al Feinstein Institute for Medical Research a Manhasset, nello Stato di New York, il nervo vago è una componente importante di quella connessione, e afferma che la stimolazione elettrica potrebbe rappresentare un buon modo per curare le malattie autoimmuni, come lupus, malattia di Crohn e altro ancora.
Diverse aziende farmaceutiche stanno investendo negli “elettroceutici” – dispositivi che possono modulare l’attività dei nervi – per curare malattie cardiovascolari e metaboliche. Ma l’obiettivo
di Tracey di controllare l’infiammazione con un simile dispositivo rappresenterebbe un notevole salto in avanti, se riuscirà.
Tracey è un pioniere che ha “arruolato un gran numero di persone per effettuare ricerche in questo settore”, dice Dianne Lorton, neuroscienziata alla Kent State University, in Ohio, che ha trascorso trent’anni a studiare i nervi che si infiltrano gli organi immunitari, come linfonodi e milza. Ma lei e altri osservatori avvertono che i circuiti neurali sottostanti agli effetti antinfiammatori non sono ancora ben compresi.
Tracey ammette la critica, ma ritiene comunque che la stimolazione elettrica abbia enormi potenzialità. “Durante la nostra vita, vedremo che dispositivi sostituiranno farmaci”, dice. La somministrazione di scosse al vago e ad altri nervi periferici, afferma, potrebbe rappresentare un trattamento valido per una serie di malattie, dal diabete all’ipertensione alle emorragie. “Siamo agli esordi di un campo di studio”.
Una scossa che vale
E’ stato solo per caso che Tracey ha iniziato a percorrere il sentiero della neuroimmunità. Nel 1998, stava studiando un farmaco sperimentale chiamato CNI-1493, che frenava l’infiammazione negli animali riducendo i livelli di una potente proteina immunitaria, il fattore di necrosi tumorale (TNF-α). Il CNI-1493 veniva solitamente somministrato endovena, ma un giorno Tracey decise di iniettarlo nel cervello di un ratto. Voleva vedere se abbassava i livelli cerebrali di TNF-α durante un ictus. Ma quello che avvenne lo sorprese.
IL CNI-1493 nel cervello aveva ridotto la produzione di TNF-α in tutto il corpo dell’animale. Ulteriori esperimenti mostrarono che ha questo tipo di somministrazione era circa 100.000 volte più potente dell’iniezione endovena. Tracey ipotizzò che il farmaco stava agendo sui segnali neurali.
I suoi esperimenti successivi corroborarono questa idea. Alcuni minuti dopo aver iniettato il CNI-1493 nel cervello, Tracey rilevava un’esplosione di attività che si propagava lungo il nervo vago del ratto. Questa autostrada neurale regola svariate funzioni involontarie, tra cui frequenza cardiaca, respirazione e contrazioni muscolari che spingono gli alimenti attraverso l’intestino. Tracey pensò che forse poteva controllare anche l’infiammazione. Quando lesionò il nervo e il potente effetto della farmaco scomparve, se ne convinse. “Erano cambiate le carte in tavola”, dice Tracey: la scoperta significava che se si riusciva a stimolare il nervo vago, il farmaco non sarebbe stato necessario.
Così effettuò un esperimento fondamentale. Iniettò in un ratto una dose letale di endotossina, un componente della parete cellulare dei batteri che proietta gli animali in una spirale di infiammazione, insufficienza d’organo e morte. Gli effetti della sostanza rispecchiano più o meno lo shock settico negli esseri umani. Poi, Tracey stimolò il nervo vago dell’animale con un elettrodo. Nel flusso sanguigno dei ratti così trattati c’era solo un quarto del TNF-α degli animali non trattati, e grazie a questo non andarono in shock.
Tracey vide immediatamente le potenzialità cliniche della stimolazione del vago come modo per bloccare gli aumenti repentini di TNF-α e di altre molecole infiammatorie. Diverse aziende stavano già vendendo stimolatori impiantabili per curare l’epilessia. Ma per estendere la tecnica agli stati infiammatori, Tracey aveva bisogno di presentare un quadro più chiaro del possibile meccanismo di funzionamento e dei possibili effetti collaterali.
Nei successivi 15 anni, il gruppo di Tracey ha eseguito una serie di esperimenti sugli animali per identificare dove e come agisce la stimolazione del nervo vago. Hanno provato a tagliare il nervo in punti diversi e a usare farmaci che bloccano specifici neurotrasmettitori. Questi esperimenti sembravano mostrare che quando il vago è stimolato con l’elettricità, un segnale scorre fino nell’addome, per poi raggiungere, attraverso un secondo nervo, la milza.
La milza funge come una sorta di area di sosta immunologica, dove le cellule immunitarie circolanti rimangono periodicamente per un po’ prima di tornare al flusso sanguigno. Il gruppo di Tracey ha scoperto che il nervo che entra nella milza rilascia un neurotrasmettitore, la noradrenalina, che comunica direttamente con i globuli bianchi chiamati cellule T. Le giunzioni tra nervo e cellule T somigliano di fatto alle sinapsi tra due cellule nervose; qui le cellule T si comportano un po’ come i neuroni, dice Tracey. Quando sono stimolate, le cellule T rilasciano un altro neurotrasmettitore, l’acetilcolina, che si lega poi ai macrofagi nella milza. Sono queste cellule immunitarie che normalmente immettono il TNF-α nel flusso sanguigno quando un animale riceve l’endotossina. L’esposizione all’acetilcolina, però, impedisce ai macrofagi di produrre la proteina infiammatoria (si veda l’illustrazione “A shock to the immune system”).
Le scoperte di Tracey hanno dato un nuovo significato a una ricerca in corso da decenni. Negli anni ottanta e novanta, David Felten, neuroanatomista all’Università di Rochester, nello Stato di New York, ha catturato immagini microscopiche di sinapsi ibride fra neuroni e cellule T, non solo nella milza, dove le aveva viste Tracey, ma anche nei linfonodi, nel timo e nell’intestino. Questi neuroni appartengono a quello che si chiama il sistema nervoso simpatico, che regola le risposte del corpo a determinati fattori di stress. Proprio come Tracey aveva osservato nella milza, Felten ha visto che questi neuroni simpatici stimolano le loro cellule T partner attraverso la secrezione di noradrenalina; e spesso questa stimolazione serve a smorzare l’infiammazione.
Nel 2014, il neuroimmunologo Akiko Nakai dell’Università di Osaka, in Giappone, ha segnalato che la stimolazione attraverso i nervi simpatici delle cellule T ne limita l’uscita dai linfonodi e l’ingresso nella circolazione, dove potrebbero scatenare infiammazioni in altre parti del corpo. Ma in molte malattie autoimmuni, questa segnalazione neurale è interrotta.
Lorton Bellinger e la sua sorella gemella Denise, neuroscienziata all’Università di Loma Linda, in California, hanno scoperto che nei modelli murini di disturbi autoimmuni alcuni percorsi dei nervi simpatici sono alterati. Lo stesso si osserva negli esseri umani. I nervi simpatici sono danneggiati dal dosaggio eccessivo di noradrenalina, che li induce a ritirarsi dalle cellule immunitarie che dovrebbero moderare. Col progredire dalla malattia, questi nervi ritornano nei tessuti che avevano abbandonato, ma lo fanno in modi anormali, creando connessioni con sottoinsiemi diversi di cellule immunitarie. Questi percorsi neurali riorganizzati in realtà mantengono l’infiammazione invece di smorzarla. Ciò avviene in posti come milza, linfonodi e articolazioni, e causa molte malattie, dice Bellinger.
Ma lei, Lorton e altri sono scettici in merito alla ricostruzione di Tracey della via attraverso cui la stimolazione vagale riduce l’infiammazione. Robin McAllen, neuroscienziato all’Università di Melbourne, in Australia, ha cercato possibili collegamenti tra nervo vago e nervo che stimola le cellule T nella milza, ma finora non ha trovato nulla.
La stimolazione vagale “agisce indirettamente” attraverso altri nervi, dice Bellinger. È importante che questi circuiti neurali siano mappati correttamente prima di passare al trattamento su persone, dice. “L’anatomia conta, e molto, negli effetti collaterali che si potrebbero vedere”.
Tuttavia, anche gli scettici vedono che c’è una potenzialità nei metodi di Tracey. Bellinger rileva che in molte malattie autoimmuni i nervi simpatici non solo diventano iperattivi, perché si riorganizzano in circuiti proinfiammatori, ma anche il nervo vago, che li contrasta, diventa poco attivo. La stimolazione vagale potrebbe in parte ripristinare l’equilibrio tra questi due sistemi neurali. “È un primo passo”, dice. “Credo che verrà introdotto nella clinica, e mostrerà effetti straordinari”.
Un approccio paziente
Le persone che usano la stimolazione vagale per contrastare crisi epilettiche o depressione sperimentano alcuni effetti collaterali: dolore e tensione alla laringe, o un affaticamento vocale, per esempio; Katrin sente una forma leggera di questo sintomo quando stimola il suo vago. La stimolazione di questo nervo può anche abbassare la frequenza cardiaca o aumentare l’acidità gastrica, tra gli altri effetti.
A questo proposito, Tracey è ottimista. Il nervo vago umano contiene circa 100.000 fibre nervose che si estendono per raggiungere diversi organi. Ma la quantità di elettricità necessaria per innescare l’attività neurale può variare da fibra a fibra di 50 volte.
Yaakov Levine, già allievo di Tracey’s, ha calcolato che le fibre nervose coinvolte nella riduzione dell’infiammazione hanno una soglia di attivazione bassa. Possono essere attivate con meno di 250 millesimi di ampere, un ottavo di quanto spesso usato per sopprimere le crisi epilettiche. E se le persone trattate per crisi epilettiche richiedono fino a diverse ore di stimolazione al giorno, gli esperimenti sugli animali hanno suggerito che una singola breve scossa potrebbe controllare l’infiammazione per un lungo periodo. I macrofagi raggiunti dall’acetilcolina non sono in grado di produrre TNF-α per un massimo di 24 ore, dice Levine, che ora lavora a Manhasset, alla SetPoint Medical, un’azienda fondata per commercializzare l’elettrostimolazione del nervo vago in ambito clinico.
Fin dal 2011, Tracey era pronto a provare la sua tecnica negli esseri umani grazie ai suoi studi sugli animali, all’ottimizzazione della stimolazione elettrica di Levine e ai finanziamenti da SetPoint. Il primo studio clinico è stato supervisionato da Paul-Peter Tak, reumatologo all’Università di Amsterdam. Nel corso di diversi anni, a 18 persone con artrite reumatoide, tra le quali Katrin, sono stati impiantati stimolatori.
Katrin e altri 11 partecipanti hanno visto migliorare i propri sintomi nel giro di sei settimane. I test di laboratorio hanno mostrato che i livelli ematici di molecole infiammatorie, come TNF-α e interleuchina-6, sono diminuiti. Questi miglioramenti sono scomparsi quando i dispositivi sono stati spenti per 14 giorni, per poi tornare quando la stimolazione è stata ripresa.
Katrin, che usa lo stimolatore fin dall’inizio, continua anche con iniezioni settimanali di metotrexato, un farmaco anti-reumatico, e assume una dose giornaliera di un antinfiammatorio chiamato diclofenac, ma ha potuto smettere di assumere dosaggi elevati di steroidi immunosoppressori e le sue articolazioni sono migliorate abbastanza da poter tornare al lavoro. I risultati di questo studio sono stati pubblicati lo scorso luglio sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
Quasi contemporaneamente sono stati pubblicati i risultati di un altro studio sulla stimolazione vagale. Bruno Bonaz, gastroenterologo all’Ospedale universitario di Grenoble, in Francia, ha impiantato stimolatori in sette persone con morbo di Crohn. Nel corso di sei mesi, cinque di loro hanno riferito di aver sperimentato meno sintomi, e l’endoscopia del loro intestino ha mostrato un danno tissutale ridotto. Anche SetPoint sta conducendo una propria sperimentazione clinica sull’uso della stimolazione vagale nella terapia della malattia di Crohn.
Tracey e Bonaz non sono gli unici a cercare di sfruttare i circuiti neurali per curare l’infiammazione. Raul Coimbra, traumatologo all’Università della California a San Diego, li studia come possibile modo per curare lo shock settico, che colpisce centinaia di migliaia di persone ogni anno. Molte persone che muoiono per questa causa sono spinte oltre il punto di non ritorno da un evento singolare: il rapido deterioramento della mucosa intestinale, che rilascia i batteri nel corpo, provocando infiammazioni che danneggiano gli organi, inclusi polmoni e i reni.
Come Tracey, negli animali Coimbra ha contrastato con successo questa sequenza fatale stimolando il nervo vago sia con elettricità sia somministrando un farmaco sperimentale chiamato CPSI-121. Coimbra spera di poter presto passare a studi clinici. Ma la sua ricerca ha anche scoperto un’altra grande sfida che la stimolazione vagale deve superare: a differenza dei ratti, alcuni esseri umani sono probabilmente refrattari a questa tecnica.
Il genoma umano codifica per una proteina extra, quella di un recettore dell’acetilcolina non funzionale, che non si trova negli altri animali. Todd Costantini, collaboratore di Coimbra all’Università della California a San Diego, ha scoperto che se questo recettore anormale è prodotto in quantità sufficiente, può compromettere la segnalazione e rendere i macrofagi incapaci di rispondere all’acetilcolina. In questo caso potrebbero continuare a rilasciare TNF-α nonostante la stimolazione vagale. La quantità di questa proteina prodotta può variare di 200 volte da una persona all’altra, dice Costantini, che ha intenzione di testare le persone per stabilire se realmente alti livelli della proteina anomala bloccano o meno gli effetti antinfiammatori della stimolazione vagale. Le prove aneddotiche suggeriscono che potrebbe essere così.
I piccoli studi clinici effettuati finora hanno rivelato che alcune persone non rispondono alla stimolazione vagale. Forse dei test potrebbero stabilire chi potrà trarre beneficio da questa procedura prima che vengano inseriti gli impianti.
Nonostante le incertezze, però, il campo dell’elettroceutica sta iniziando a prendere slancio. Lo scorso ottobre i National Institutes of Health degli Stati Uniti hanno annunciato un programma chiamato SPARC (Stimulating Peripheral Activity to Relieve Conditions) per studiare la stimolazione dell’attività periferica per alleviare condizioni patologiche, che garantirà 238 milioni di dollari di finanziamenti fino al 2021 per sostenere l’aggiornamento delle mappe dei circuiti neurali nella cavità toracica e in quella addominale.
Anche l’azienda farmaceutica britannica GlaxoSmithKline sta mostrando interesse. Ha investito in SetPoint e l’anno scorso ha annunciato la formazione di una joint venture con Google, chiamata Galvani Bioelectronics, che svilupperà terapie per una serie di patologie, tra cui le malattie infiammatorie. Tak, che ha effettuato lo studio sull’artrite reumatoide per Setpoint, è entrato a far parte di GlaxoSmithKline nel 2016.
Resta da vedere se la stimolazione del vago sarà all’altezza delle aspettative. Il numero di persone finora trattate è minuscolo: solo 25 soggetti in due trial completati. E spesso i trattamenti sembrano promettenti nei primi piccoli trial come questi, ma poi in quelli più grandi si rivelano dei flop.
Tuttavia le persone con disturbi autoimmuni cominciano a prestare attenzione. Le terapie per artrite reumatoide e malattia di Crohn hanno dei rischi e non aiutano tutti. Katrin è una delle oltre 1000 persone che hanno fatto domanda per essere sottoposte alla stimolazione vagale. “Non avevo altro”, dice. “La volevo.”
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 3 maggio 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)